In favore del monopolio intellettuale: più musica per tutti

di Andrea Asoni

Le case discografiche, che detengono il diritto di riproduzione e vendita della produzione di singoli musicisti e cantanti, vengono spesso accusate di usare tale diritto per estrarre ingiusti profitti dai consumatori e limitare la loro scelta. Tale accusa merita un’attenta analisi. Presenterò degli argomenti che sollevano dubbi in merito a tale affermazione. Discuterò inoltre di alcune proposte, specificamente della proposta di abolizione del diritto di proprietà intellettuale (DPI) come misura di policy volta a proteggere i consumatori.

Su una cosa bisogna essere d’accordo. Le case discografiche sono oggi le uniche a poter riprodurre e distribuire legalmente la musica dei loro artisti. Copiare e mettere a disposizione di altri tale produzione artistica viola quel diritto; tutto ciò a prescindere da considerazioni sulla giustificazione di tale diritto. E’ irrilevante poi che lo si voglia chiamare furto o meno. Siamo di fronte alla violazione di un diritto e chiunque lo faccia è punibile dalla legge.
Tuttavia questo non è il cuore della vicenda ma solo una piccola schermaglia: come le prime fila delle legioni romane scagliavano i loro dardi e poi si andavano a nascondere tra le linee dei principi armati di spada e scudo, così anche io, dopo aver lanciato la pietra in mezzo allo stagno, mi rivolgo agli argomenti rilevanti.

Il problema della musica
Il cuore della vicenda è la giustificazione del monopolio nella distribuzione e riproduzione della musica garantito alle case discografiche. Da una parte tale monopolio è volto alla tutela dei diritti del produttore della musica il quale gode dei frutti del proprio lavoro e si vede incentivato a produrre più musica; dall’altra è una forma di protezione legislativa che assicura un minimo profitto alla casa discografica, incentivandola così ad aiutare il musicista nella produzione.
Chi critica tale diritto lo fa tendenzialmente su due livelli. Da una parte viene considerato un aiuto non dovuto alle case discografiche, che assicura loro un ingiustificato potere di mercato e impone dei costi eccessivi ai consumatori. Dall’altra si reclama che non ha alcun effetto sugli incentivi del singolo musicista il quale produrrebbe musica in ogni caso. Affrontiamo le due questioni separatamente.

Potere di mercato
Premetto che questa è una questione empirica. Queste cose più che discusse vanno misurate. Detto ciò ecco alcuni argomenti che ci dovrebbero spingere verso l’idea che le Major non hanno tutto il potere di mercato che i loro detrattori suggeriscono.

Una impresa, che sia una casa discografica o un panificio, può avere potere di mercato sui consumatori o sui lavoratori.
Le case discografiche hanno potere di mercato sui propri lavoratori, in questo caso i cantanti e i musicisti? Avere potere di mercato significa pagarli meno della loro produttività marginale, diminuire i propri costi e fare profitti.
Siamo disposti a credere che Eminem o Britney Spears accettino un salario inferiore al loro valore, o più semplicemente, inferiore a quello che offre la major concorrente? O a quelli che potrebbero ottenere se aprissero la loro stessa Major? Una situazione di “salari concertati” non è sostenibile in un mercato come quello discografico dove vi sono rilevanti opportunità di profitto in caso di deviazione dall’accordo, dove i “lavoratori” hanno interessanti opzioni alternative e la minaccia in entrata nel settore è costante.
I cantanti possono essere a volte sotto, a volte sopra pagati ma non mi stupirei se in media venissero ricompensati secondo la loro produttività marginale. Le alte cifre pagate ai cantanti, la loro variazione, suggeriscono che le case discografiche non stiano colludendo per pagare meno i cantanti.

Per quanto riguarda i consumatori la situazione è ancora più chiara. Partiamo subito con il dire che le case discografiche hanno un certo potere di mercato. Non perché stiano attuando comportamenti lesivi della concorrenza ma perché il prodotto che vendono è differenziato. Ad un fan dei Metallica non interessa il prezzo dei dischi di Justin Timberlake (sarebbe probabilmente disposto a pagare per non ascoltarli!). Per questo motivo la casa discografica che possiede i diritti sui Metallica potrà sempre imporre un prezzo più alto del costo marginale.
Quanto è grande questo potere di mercato? Dipende dall’elasticità della domanda, ovvero dalla propensione dei consumatori a cambiare cantante o a comprare meno dei suoi dischi qualora i prezzi siano troppo alti (rispetto anche alla qualità). Così è vero che la fanciulla innamorata di Ricky Martin non si cura dei dischi dei Panthera ma allo stesso tempo può tranquillamente scegliere tra Ricky Martin, Justin Timberlake, Enrique Iglesias o Robbie Williams per soddisfare il suo bisogno di musiche pop dagli occhi blu (Wikipedia ha più di seicento nomi alla categoria “American pop singer”).
Andrebbe verificato con una ricerca rigorosa ma immagino che l’elasticità della domanda per il singolo cantante sia parecchio elevata. Questo restringe di molto il potere di mercato delle case discografiche.

Da un punto di vista economico la competizione tra le major della musica può essere descritta dalla concorrenza monopolistica piuttosto che dal monopolio o l’oligopolio: le case hanno un limitato potere di mercato che usano per estrarre dei profitti.
Se vi è libero accesso al settore, se diversi imprenditori possono aprire case discografiche senza incontrare impedimenti legali o illegali (non sono a conoscenza di nessun caso di tali impedimenti), allora tali profitti saranno appena sufficienti a pagare i costi di ingresso nel settore. Dunque i profitti delle case discografiche non solo non sembrano ingiustificati; piuttosto potrebbero essere appena sufficienti a garantire l’esistenza stessa del settore.

Quello che è successo è che, come al solito, la tecnologia è arrivata a scombinare le carte in tavole. Riprodurre e distribuire la musica è diventato così facile che tali profitti non sono più giustificati perché basati su una struttura del mercato ormai sorpassata. A questo punto le major si dovranno adattare alla nuova struttura o verranno inesorabilmente cancellate dalle forze del mercato. Tutto ciò non ha nulla che vedere, o ben poco, con il diritto d’autore.

Incentivi a produrre buona musica
Il secondo argomento che viene portato in attacco al privilegio delle Majors nel distribuire la musica è l’idea secondo cui gli incentivi dei musicisti sono indipendenti dalla protezione del diritto d’autore. La buona musica verrà sempre prodotta. L’esempio più comune riportato è quella della grande musica classica prodotta in assenza di ogni qualsiasi privilegio riguardante la produzione e la distribuzione di tali opere.
Sono d’accordo: la buona musica continuerà ad essere prodotta. La questione rilevante è in che quantità.
Vi saranno sempre artisti la cui passione per la bellezza e l’armonia e la creatività farà loro mettere da parte ogni considerazione di tipo economico. Van Gogh è morto in povertà assoluta. L’idea è che grazie alla protezione sul diritto d’autore molti più artisti affronteranno la scena, molte più musiche verranno scritte, molte più canzoni verranno cantate e così via. Le case discografiche sanno di poter investire sui cantanti e musicisti perché in caso di successo godranno di diritti esclusivi sulla produzione di tali artisti. Il valore che diamo a questa maggiore produzione e i costi che sosteniamo pagandola ad un prezzo leggermente superiore devono essere confrontati con una minore produzione ad un minor costo. Può darsi che senza diritto di autore non avremmo avuto i Beatles, perché i fab-four non sarebbero stati capaci di sostenere i costi della produzione del loro primo disco (o primi dischi).

Si dice, al tempo di Mozart non vi era diritto d’autore eppure abbiamo avuto un genio come Mozart. A parte il fatto che Mozart come quasi tutti gli artisti dell’epoca e fino all’ottocento viveva a Corte (una sorta di monopsonio regale) e non aveva il problema di dover vivere sui profitti generati dalle sue opere, la vera domanda è: siamo sicuri che esistendo il diritto d’autore non avremmo avuto più di un Mozart allo stesso tempo? Chi ci assicura che, esistendo il diritto d’autore al tempo di Mozart, non avremmo potuto beneficiare di più musica classica di eccelsa qualità oggi?

Un secondo punto presentato in relazione a questa argomentazione è quello relativo ai costi irredimibili. Il punto è che i costi sostenuti dalle major non sarebbero fissi (giustificando il monopolio) ma irredimibili, ovvero non recuperabili una volta sostenuti. In questo caso non dovrebbero influenzare le scelte di prezzo dell’impresa.
Il limite di questa argomentazione è che l’impresa prima di entrare nel settore confronta la profittabilità che segue all’entrata nel settore (questa dipendente dall’esistenza o meno del privilegio di cui si discute) con i costi sostenuti per entrare. Se la profittabilità viene notevolmente diminuita attraverso l’eliminazione del privilegio alla riproduzione e alla vendita di un certo prodotto, potrebbe essere ottimale per l’impresa non entrare nel settore in primo luogo.
Paradossalmente invece che combattere una presunta situazione di oligopolio la si potrebbe rafforzare: solo le imprese che sono già entrate nel settore continuerebbero a produrre. Tali imprese, protette dall’entrata di nuove imprese e in numero minore potrebbero avere più incentivi a colludere, tutto a danno del consumatore. Questo, ovviamente, a parità di tecnologia. Il cambio della tecnologia invece come illustrato sopra, cambierà completamente la struttura del settore stesso.

Un’altra possibilità è che l’eliminazione tout court del diritto di autore inoltre probabilmente non risolverebbe il problema del privilegio delle case discografiche. Immagino che qualora il DPI fosse abolito la prima clausola di un contratto tra un musicista e una major diventerebbe “la major XY è l’unica con diritto di riproduzione e distribuzione del disco XC del signor KX”. E a questo punto non avremmo ottenuto nulla salvo di cambiare il potere contrattuale degli autori (non mi è chiaro al 100% in che direzione ma credo in peggio).

La tesi centrale di questo articolo è che il diritto d’autore non è la causa primaria dei costi sostenuti per ogni CD acquistato. La ragione va ricercata nella tecnologia con cui la musica viene prodotta e distribuita e nella struttura della domanda (apparentemente molto alta per l’intrattenimento in generale). Abolire il DPI non avrebbe nessun impatto rilevante in assenza di un più generale cambiamento della struttura di mercato. Quello che porterà dei benefici ai consumatori è di sicuro il cambio della tecnologia nella distribuzione e riproduzione della musica che ha causato un abbattimento dei costi marginali di produzione della singola canzone. In maniera indipendente dalla tutela del diritto d’autore o dal privilegio delle case discografiche.

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