Contro il monopolio intellettuale: il caso delle grandi major della musica

di Pierangelo De Pace

Con una sentenza risalente allo scorso 9 gennaio, la Corte di Cassazione ha annullato una sentenza di condanna a tre mesi e dieci giorni di reclusione a carico di due giovani torinesi per violazione della legge sul copyright relativamente a fatti commessi nel 1999, allorchè, ancora studenti del Politecnico di Torino, i due avevano creato una rete di scambio di file protetti.

Sorvolerò sulle motivazioni che hanno indotto il rovesciamento della sentenza, pubblicizzata in maniera fuorviante da giornali e telegiornali e ripresa con eccessivo ed ingiustificato entusiasmo da commentatori e uomini politici, i quali sembrano non aver colto la sostanza ed i termini della questione.

Con esplicito riferimento alle idee di due economisti accademici di calibro mondiale – Michele Bodrin e David K. Levine, entrambi della Washington University in St. Louis ed autori del volume “Against Intellectual Monopoly” – argomenterò, invece, la validità economica delle teorie che dovrebbero supportare l’azione del legislatore nella determinazione dei diritti di proprietà da tutelare senza, per questo motivo, disincentivare o addirittura ostacolare la libera concorrenza nel mercato e nella distribuzione delle idee e delle opere intellettuali.

L’esempio più evidente ed immediato da presentare per una descrizione adeguata del fenomeno oggetto di analisi è quello della musica online e dei relativi diritti di proprietà intellettuale che vengono tutelati da gran parte delle legislazioni correnti nel mondo occidentale, soprattutto per le pressioni provenienti dalle potenti case discografiche che si occupano della distribuzione a livello globale dell’opera di autori, musicisti e cantanti. Prima è toccato a Napster sul finire degli anni ’90; successivamente altri software P2P (peer-to-peer) – utilizzati per lo scambio di file musicali protetti da copyright e non – sono finiti nel mirino delle grandi major musicali.

Boldrin e Levine non pongono la questione in termini legali, ma cercano di individuare i motivi in base ai quali, grazie alle nuove tecnologie che consentono il libero scambio ed una più efficiente distribuzione dei prodotti musicali, nell’interesse dei consumatori ed allo scopo di tutelarne i comportamenti ed i diritti, sarebbe opportuno limitare i campi di intervento delle attuali leggi sul diritto d’autore o, addirittura, rimuoverne del tutto le possibilità di azione, almeno per come si configurano oggi. I paragrafi che seguono sono una rielaborazione esplicativa dell’articolo in lingua inglese “Why Napster is right – Perchè Napster ha ragione”, scritto dai due economisti citati.

Per iniziare, non è superfluo ricordare chi siano i principali attori economici nel mercato della musica. Vi sono innanzitutto i produttori di musica (cantanti, autori e musicisti); vi sono i consumatori finali, e cioè la gran massa di audiofili di tutto il mondo; vi sono infine le case discografiche, le quali, dopo aver acquistato il prodotto musicale dall’autore, ne acquisiscono i diritti esclusivi di distribuzione e vendita. Il punto della questione, almeno in termini strettamente economici, è il seguente: le attuali leggi sul diritto d’autore tutelano davvero gli interessi di produttori e consumatori, massimizzandone il benessere complessivo? O, piuttosto, finiscono per perpetuare i privilegi di semplici intermediari – quali sono le case discografiche – consentendo a questi la raccolta di profitti ingiustificati?

Non a caso le più forti pressioni per il mantenimento o l’inasprimento delle leggi sul copyright provengono dalle grandi major: in base alle loro argomentazioni, scambiare o scaricare direttamente dalla rete, attraverso apposito software P2P, file musicali protetti da copyright è equivalente ad un atto di pirateria informatica e ad un furto. Inoltre, si tende ad affermare che, senza apposite tutele legali della proprietà intellettuale nessun autore avrebbe più i giusti incentivi alla produzione di musica.

Innanzitutto, a dire il vero, non è ben chiaro il motivo in base al quale scaricare un file musicale .mp3 sia un furto. Il  furto di un bene, infatti, implica l’impossibilità di poterne usufruire da parte di chi ha subito quel furto. Nella fattispecie, duplicare un file .mp3 e distribuirlo attraverso la rete non comporta in alcun caso tale impossibilità o privazione, dal momento che altri, nello stesso istante, possono continuare ad ascoltare un determinato pezzo musicale senza essere stati danneggiati dallo scambio avvenuto per via informatica. Inoltre, l’acquisto ordinario di un compact disc musicale dovrebbe garantire all’acquirente di disporne nella maniera desiderata. L’acquisto di un bene presuppone, infatti, il trasferimento del corrispondente diritto di proprietà dal venditore all’acquirente, il quale è poi giuridicamente libero di usarlo nella maniera che più desideri, purchè non sia lesiva dei diritti altrui. Per quale motivo, invece, il legislatore si propone di punire chi duplica il contenuto di un CD musicale regolarmente acquistato e ne distribuisce la copia in rete? A rigor di logica, sarebbe furto di proprietà intellettuale la distribuzione di un brano musicale del quale si rivendichi la paternità, pur non avendolo mai composto; più improbabile voler definire furto la semplice distribuzione dello stesso brano, quando non si affermi di esserne il vero autore (per il quale, nel caso specifico, resta inviolato il diritto – questo certamente da tutelare – ad essere riconosciuto come l’ideatore e/o il produttore materiale dell’opera).

Una volta acquistato presso un distributore autorizzato, si ha, entro certi limiti, la possibilità di rivendere il proprio CD a terzi o di permetterne l’ascolto ad individui che non lo hanno ancora comprato. Apparentemente, le grandi major della musica sono interessate ad impedire che la tecnologia attualmente disponibile sia utilizzata da soggetti privati per la distribuzione di massa, attraverso la copia, di opere dell’intelletto che non siano state acquisite direttamente dall’autore dietro il pagamento di un corrispettivo in denaro. Eppure, fanno notare Boldrin e Levine, non è considerato illegale produrre copie di un abito Armani fintanto che non vi si apponga sopra un’etichetta Armani. Perchè, invece, non è consentito fare lo stesso con un CD musicale?

Tra quelli sopra menzionati, l’aspetto che sembra, dunque, importante e del quale occorrerebbe parlare è il secondo: appurato che, tecnicamente, non si tratta di un furto, per quale motivo i grandi distributori di musica si oppongono alla possibilità che venga concesso il diritto di copiare musica e rivenderla (o ridistribuirla gratuitamente) attraverso internet o, più semplicemente, sugli stand dei mercatini rionali su supporti masterizzati?

Le major affermano che consentendo ciò, si eliminerebbe ogni incentivo a produrre buona musica. In realtà, qualunque sia la loro tesi – e giusta o sbagliata che essa sia – da un punto di vista strettamente economico, esse cercano soltanto di conservare la tutela legale del proprio monopolio (o oligopolio) sulla distribuzione di musica. In un mercato oligopolistico, nel quale vi sia, potenzialmente, un elevato numero di acquirenti e solo un limitatissimo numero di produttori (o distributori, come nel caso delle case discografiche), i prezzi praticati tendono ad essere più elevati e le quantità prodotte/distribuite inferiori rispetto ai prezzi ed alle quantità che prevarrebbero in una situazione di perfetta concorrenza, nella quale un elevato numero di produttori/distributori dovrebbe essere garantito dall’assenza e/o dalla rimozione di ogni barriera all’entrata. Nel mercato della musica, le major impediscono di fatto l’ingresso ad altri possibili distributori nel mercato attraverso la loro azione di lobbying sul legislatore, indotto per motivi contestabili a legiferare a favore di aspre leggi sul copyright. È evidente a tutti che, nel caso in cui tali leggi fossero rimosse, i prezzi di acquisto della musica crollerebbero (sarebbero prossimi allo zero, probabilmente) e le quantità vendute (anche attribuibili agli autori sconosciuti ai più, che non entrano al momento nel giro della grande distribuzione) si impennerebbero, a tutto vantaggio dei consumatori.

Ciò che importa a questo punto è capire se, con prezzi prossimi allo zero, sarebbe ancora prodotta buona musica (o qualsiasi altra forma di opera dell’intelletto, volendo estendere la linea logica adottata ad aspetti più ampi rispetto a quello trattato prevalentemente in questo articolo). Le major sottolineano la necessità di dover corrispondere elevati compensi a cantanti e musicisti: senza quei compensi, nessuno sarebbe più disposto ad intraprendere quei particolari tipi di carriera. Esistono almeno due motivi per pensare che la buona musica continuerebbe invece ad essere prodotta.

Il primo si basa sull’evidenza storica: si pensi alla musica classica, alle produzioni letterarie, alle sculture e ai dipinti dei grandi artisti del passato. Tali opere furono realizzate senza alcuna legge a tutela della proprietà intellettuale e senza che, nella grande maggioranza dei casi, introiti monetari ingenti fossero assicurati in qualche maniera agli autori.

Il secondo è di natura economica e si riferisce alla natura dei compensi (più o meno elevati) distribuiti agli artisti. Le major sono dell’idea che tali costi debbano essere considerati fissi e che la loro industria debba essere ritenuta una sorta di monopolio naturale degno di tutela legale: con costi fissi elevati e costi marginali di distribuzione costanti ed estremamente ridotti, è più efficiente che la distribuzione avvenga attraverso l’attività di uno (o pochi) operatori. In maniera assai sintetica, anche l’economista di Stanford Paul M. Romer giunge alla stessa conclusione attraverso considerazioni economiche simili.

Le tesi delle case discografiche proseguono. Non tutelando la conseguente cornice oligopolistica (o comunque di rilevante potere di mercato nelle mani di pochi agenti) ed esponendo l’intera industria alla libera concorrenza non si permetterebbe ai distributori di recuperare i costi fissi iniziali – in concorrenza perfetta il prezzo di equilibrio sarebbe uguale al costo marginale di distribuzione dell’opera, sulle base delle osservazioni analizzate prima praticamente nullo – e questi incorrerebbero in una perdita iniziale non trascurabile.

Al contrario, Boldrin e Levine sono del parere che quei costi, associati alla produzione iniziale dell’opera intellettuale, siano in realtà costi irredimibili e non fissi. I costi irredimibili sono quei costi che sono già stati sostenuti dal distributore che entra in una determinata industria, l’entità dei quali non influisce sulle scelte di prezzo e quantità ottimi del singolo distributore ed il cui mancato recupero non dovrebbe determinare la scelta di entrare o meno nell’industria in questione. La diversa natura di tali costi, così come formulata dalla teoria economica, non giustificherebbe quindi l’esistenza di un monopolio nella distribuzione della musica, che dovrebbe, invece, essere mantenuta in regime di concorrenza; configurazione, questa, comunque in grado, nel mondo reale, di determinare nel tempo il recupero dei costi irredimibili.

Come se non bastasse, la grande distribuzione musicale organizzata dalle case discografiche fornisce solo una quantità limitatissima della reale produzione musicale mondiale (si pensi, ad esempio, agli innumerevoli artisti sconosciuti che autoproducono i propri CD). Ciò danneggia il consumatore, che non ha la possibilità di osservare la gamma completa di musica potenzialmente disponibile a causa di una imperfezione del mercato; e rappresenta una forte evidenza a sfavore di chi afferma che gli artisti non sarebbero più disposti a produrre musica se non fossero pagati in maniera adeguata dai distributori: chi autoproduce la propria musica e la vende su scala ridottissima non gode certo di rendite esorbitanti.

Per concludere, le attuali leggi sul copyright favoriscono e tutelano la presenza di un oligopolio nel mercato della musica mondiale ed il conseguimento di extra-profitti derivanti da tale posizione dominante; condannano ciò che tecnicamente non si configura come furto (la copia e la libera distribuzione di brani musicali senza finalità fraudolente, e cioè senza che la vera paternità dell’opera sia negata o mutata); penalizzano i consumatori, costretti a pagare cifre elevate per l’acquisto legale della musica; ne limitano e ledono i diritti di proprietà ed il loro esercizio; non consentono l’accesso alla grande distribuzione della grande maggioranza degli artisti ed impediscono agli utenti di massimizzare le proprie possibilità di scelta. Inoltre, non sembrano essere fattore determinante degli incentivi alla produzione di buona musica.

Tutti buoni motivi, questi, per aprire il mercato in questione alla concorrenza attraverso la revisione radicale dei termini e della portata dei diritti di proprietà intellettuale oggi accordati dal legislatore.

 

AGGIORNAMENTO: Roberto Perotti su Il Sole 24 ORE dello scorso 7 febbraio propone una tesi simile facendo riferimento alle stesse fonti utilizzate in questo articolo.

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