Bernard Lewis, la Storia e la lezione da trarne

di Andrea Gilli

Gli storici hanno raramente ragione sul passato. Quasi mai sul futuro. Come scrive John Vincent, un celebre storico inglese, gli storici non sono per i concetti, tanto meno per il rigore (Vincent, 2005). Difficile che dunque riescano a utilizzare in modo coerente un concetto. Quasi impossibile che riescano a definirlo con rigore. La ragione e’ semplice: gli storici fanno affidamento su documenti, dati, archivi, memorie, etc. Tutte preziose fonti che possono raccontare una buona parte della storia. Il problema e’ che nessuno sa ne’ quanta parte possono raccontare, ne’ tanto meno se essa sia corretta, specie quando da quei dati, parziali, si ricavano delle spiegazioni generali.

La nostra non vuole essere una filippica contro il nobile mestiere dello storico. Solo un avvertimento contro i rischi della professione, e un suggerimento alla cautela di fronte alle previsioni elaborate dagli storici: difficile che colui che e’ incerto sul passato possa offrire qualche raccomandazione piu’ corretta sul futuro. A nostro modo di vedere sono infatti pochi gli storici che riescono a sfuggire questi dilemmi: guarda caso, quei pochi che ci riescono utilizzano dei metodi propri non della Storia ma di altre discipline, quali l’Economia o la Scienza Politica.

Sul Jerusalem Post di alcuni giorni orsono, Bernard Lewis, il celeberrimo storico dell’Islam che insegna a Princeton, ha ripetuto il suo noto sconforto: l’Europa sara’ totalmente mussulmana in meno di cent’anni. Cio’, secondo Lewis, sarebbe dovuto al politically correctness che contraddistingue il Vecchio Continente.

Cio’ che ci interessa non e’ verificare se le previsioni demografiche di Lewis siano fondate oppure no (di sicuro le sue previsioni sarebbero piu’ convincenti se alle parole aggiungesse qualche regressione, facesse delle stime sui tassi di crescita degli immigrati in Europa, inserendo nella variabile anche le implicazioni sul tasso di fertilita’ derivanti dalla crescita del loro reddito relativo, e altri fattori strutturali quali il rallentamento dell’economia europea, etc.).

Cio’ che ci preme e’ piuttosto la vera e propria tesi dell’arrendevolezza dell’Occidente. Lewis sostiene infatti che la crescita della popolazione mussulmana in Europa portera’ presto alla distruzione della civilta’ occidentale, e cio’ avverra’ perche’ l’Europa si sarebbe arresa.

Come si vede da questa prima asserzione, Lewis guarda all’effetto finale (la presunta islamizzazione dell’Europa), ma non ne spiega la causa (l’immigrazione mussulmana), lasciando quindi piu’ di un dubbio sul fatto che la vera relazione causale sia quella da lui identificata.

Sono cose note e conosciute, ma conviene ripeterle visto che addirittura una mente quale quella di Bernard Lewis sembra non farci caso: l’Europa e’ in declino demografico. Questo declino demografico ha due implicazioni principali: da una parte, la crescita incontrollata della spesa sociale (sanita’ e pensioni: gli anziani non solo vanno in pensione, ma si ammalano anche piu’ facilmente). Dall’altra, il declino della produttivita’ totale (riduzione progressiva della forza lavoro) e quindi del reddito prodotto dai singoli Paesi dell’Unione. Cio’, in senso circolare, compromette la capacita’ di pagare le spese sociali di cui sopra, che pero’ i Paesi europei sono ben poco disposti a ridurre. Oltretutto, producendo progressivamente, e relativamente al resto del mondo, sempre meno reddito, l’Europa e’ anche costretta nel lungo termine a ridurre le sue importazioni (perche’ non se le potra’ permettere): e in special modo quelle con un prezzo relativo piu’ elevato (e quindi a piu’ alto contenuto tecnologico: quelle cioe’ che aiuterebbero a contenere il declino della nostra produttivita’ totale).

Questo processo non e’ ovviamente una dannazione divina, ne’ e’ frutto di semplice sfortuna, ne’ tanto meno e’ attribuibile all’Islam. Questo declino strutturale deriva dalla bassa natalita’ che si registra in Europa oramai da diversi decenni. A sua volta, la bassa natalita’ ha delle sue ragioni strutturali, non divine o metafisiche: in Europa, e negli Stati Uniti (o in Giappone), si fanno meno figli perche’ all’aumentare del reddito, ogni coorte successiva tende a ritardare il primo figlio e a ridurre il numero della prole. Cio’ e’ spiegabile con il fatto che al crescere del reddito, aumenta la durata degli studi, aumenta la partecipazione femminile al lavoro, etc.

In altri termini, il processo di “islamizzazione” dell’Europa trova la sua causa in Europa, non nell’Islam. Per mantenere il proprio livello di reddito, e quindi potersi permettere le proprie spese sociali e le importazioni a piu’ alto contenuto tecnologico, l’Europa ha bisogno di mano d’opera: e ovviamente non puo’ che importarla da dove costa meno. Se il prezzo di un bene e’ dato dalla sua offerta, il prezzo della manodopera proveniente dai Paesi islamici che si affacciano sul Mediterraneo e’ evidentemente molto basso, visto l’elevatissimo tasso di disoccupazione e poverta’ che li contraddistingue e soprattutto alla vicinanza di questi Paesi con l’Europa. D’altronde, lo stesso avviene negli Stati Uniti, che infatti importano manodopera dal Sudamerica: e guarda caso e’ proprio questa manodopera che permette al tasso di crescita della popolazione americana di restare positivo.

Dunque, il processo di islamizzazione dell’Europa non e’ tanto diverso dal processo di messicanizzazione degli Stati Uniti. Bernard Lewis pero’ ritiene il primo una sorta di dannazione divina, il secondo addirittura non meritorio di interesse.

A questo punto, pero’, ci interessa fare un passo piu’ profondo. E vedere, in prospettiva storica, se quanto paventa Lewis e’ possibile e soprattutto se nella storia dell’umanita’ processi simili sono avvenuti, e se si, quali implicazioni essi hanno comportato.

Per comprendere quanto accaduto nel passato, conviene partire da tre testi fondamentali: Buzan and Little (2000), Olson (1984) e Gibbon (1776).

Olson e Gibbon spiegano il declino di Imperi o Nazioni. Anche se i due libri hanno quasi duecento anni di differenza, le tesi sono particolarmente somiglianti, sebben Gibbon ecceda (ovviamente) in giudizi morali. Gibbon rintraccia infatti la caduta dell’Impero Romano nell’agio nel quale i Romani si erano venuti a trovare. La sua critica riguarda il loro stile di vita comodo, rilassato, “non militare”. In altri termini: i Romani erano benestanti, e volevano godersi questo benessere. Purtroppo non compresero che certi agi, se sfruttati all’estremo, avrebbero portato al collasso dell’intero sistema. Proprio quanto sarebbe accaduto.

Sul crollo dell’Impero Romano ci sono ovviamente molte speculazioni e l’assenza di documentazione rende faticosa una spiegazione piu’ precisa. Il testo di Olson, pero’, per analogia ci puo’ offrire qualche importante spunto. Olson nota infatti come le Nazioni declinino per via dei gruppi di interessi che si formano al loro interno e che, semplicemente, non accettano che i loro privilegi vengano intaccatti. Il risultato e’ un trasferimento netto, e inefficiente, di risorse dai produttori di reddito ai consumatori, con il risultato finale che i primi hanno progressivamente minori incentivi a produrre, e i secondi sempre piu’ incentivi a non riformare il sistema. L’epilogo e’ rappresentato dal crollo degli investimenti, da un’economia sempre piu’ distorta, sbilanciata verso il consumo e non in grado di autosostenersi. La débâcle, in altre parole.

Se qualcuno nota delle analogie con lo stato attuale dell’Europa saremo lieti di non essere soli (Alesina e Giavazzi, 2006).

Ma ancora piu’ interessante, a questo punto, e’ guardare a quanto e’ successo prima e dopo il crollo di questi imperi: quali sono state, in altre parole, le conseguenze e soprattutto le caratteristiche di quei cambiamenti.

A proposito, la risposta viene offerta da Barry Buzan e Richard Little, nel loro volume sull’evoluzione dei sistemi internazionali nella storia mondiale. Analizzando la storia dell’umanita’ a partire da quando l’uomo e’ apparso sulla terra, circa 40.000 anni fa, Buzan e Little studiano come i sistemi internazionali si siano progressivamente evoluti, partendo da quelli composti di bande di nomadi cacciatori fino a quelli composti di superpotenze atomiche. Buzan e Little adottano un chiaro approccio storico, che si inserisce nel percorso della English School, una scuola delle relazioni internazionali sviluppata prevalentemente in Inghilterra e che fonda la sua metodologia sulla narrazione storica. Anziche’ guardare ai sistemi internazionali come definiti e fissi, in quest’ottica storica i due autori guardano a come essi sono progressivamente evoluti e alle cause e conseguenze delle loro evoluzioni, cosi’ da poter ipotizzare quale siano, logicamente, i cambiamenti possibili nel futuro prossimo.

Guardando a come il pre-sistema internazionale (40.000 AC – 3.500 AC) e’ stato soppiantato dal primo sistema internazionale (formazione delle citta’ stato: 3.500 AC) e poi questo a sua volta sia stato rimpiazzato dal primo sistema mondiale (1.500 DC: formazione dello Stato moderno), Buzan e Little rilevano un dato particolarmente significativo: il cambiamento di sistema internazionale storicamente è stato dettato dalla trasformazione delle unita’ che lo componevano. In altre parole, e’ la nascita di nuovi tipi di strutture politiche (citta’-stato, imperi, stato moderno, etc.) che ha modificato la struttura internazionale. Cio’ che colpisce, pero’, e’ che le nuove unita’ sono storicamente emerse non dal centro del sistema internazionale, ma dalla sua periferia. La transizione dal pre-sistema internazionale al primo sistema internazionale si dovette difatti alla nascita di comunita’ sedentarie, che vennero stabilite alla periferia del sistema internazionale, non al suo centro (per ragioni climatiche e soprattutto di sicurezza). Successivamente si sarebbero create le prime citta’-stato o i primi imperi che poi, a loro volta, sarebbero di nuovo stati soppiantati da nuove unita’ nate alla loro periferia: lo Stato moderno da una parte (sorto infatti non in Italia, ma appena fuori dai suoi confini), e gli imperi nomadi dall’altra. Di nuovo, la formazione di nuovi tipi di unita’ determino’ un cambiamento radicale del sistema internazionale.

Cio’ che ci interessa in questa sede e’ pero’ la capacita’ della periferia di sopravvivere al centro. Come fece la barbara Europa a sopravvivere la civile Roma? Come poterono le tribu’ nomadi delle steppe centrasiatiche sopraffare i grandi imperi mesopotamici? La risposta e’ semplice: quelle civilta’ erano in declino (si veda quanto scritto sopra) e questi nuovi gruppi riuscirono efficacemente ad interiorizzare il meglio della cultura e della civilta’ delle comunita’ precedenti, cosi’ da superare i loro problemi, senza disperderne l’eredita’. Un caso analogo e’ offerto da Alessandro Magno, che fuse insieme la civilta’ ellenica e quella persiana. Il fatto che nessuno si ricordi di Alessandro Magno come del dissipatore della civilta’ greca dovrebbe forse far riflettere.

In conclusione, Buzan e Little, ci dicono che nel corso della storia umana, il centro piu’ ricco del sistema internazionale (in declino per via delle sue dinamiche interne) e’ storicamente stato sopraffatto da nuovi tipi di unita’ politiche che ne hanno assimilato la cultura e le tecniche, e proveniente dalls sua piu’ vicina periferia. La storia dell’umanita’ ha continuato a progredire, nel frattempo.

Questo, il messaggio della Storia. Neanche paragonabile alle goffaggini di certi storici.


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