La superpotenza spaziale/2

di Andrea Gilli

Lo scorso ottobre, con diverse settimane di ritardo, la Casa Bianca rese nota la propria decisione di voler apportare sostanziose modifiche alla propria strategia spaziale. In particolare, modificando la precedente dottrina sancita con un documento del 1996, Washington identifico’ tre nuovi punti cardine sui quali si sarebbe appunto fondata la nuova politica stellare. Riassumendo brevemente, essi sono:

1) volontà di impedire l’accesso allo spazio ai nemici degli Stati Uniti;

2) determinazione affinché nessuno possa ostruire le loro operazioni celesti;

3) mantenimento della leadership tecnologica (necessaria sia per il perseguimento del punto uno che due).

Come si evince chiaramente, i tre punti sono intimamente legati. La leadership tecnologica (3) impedisce ad eventuali rivali di ostruire le operazioni celesti degli Stati Uniti (2) e quindi, in seguito, (1) di contenderne il dominio spaziale.

La revisione del Presidential Decision Direct/NSC-49/NSTC-8, National Space Policy avvunuta alla fine della scorsa estate indica quindi chiaramente la volonta degli Stati Uniti di mantenere la supremazia nel campo astrale. In gerco accademico, si parla di preponderance, o piu’ in generale di una Offensive Realism posture. Una strategia fondata sull’assunto secondo il quale gli Stati Uniti sono piu’ sicuri se sono i piu’ forti e se riescono ad impedire ad altri di diventare relativamente piu’ importanti, anche se cio’ puo’ costare l’antipatia di molti altri inquilini del pianeta Terra. Relativamente all’astrogeopolitica, cio’ significa mantenere il dominio stellare, in modo da rafforzare, consolidare ed eventualmente prolungare quello terrestre.

Il documento della Casa Bianca faceva vagamente riferimento a non ben specificati “nemici degli Stati Uniti”. Non è pero’ necessario essere dei fini analisti per comprendere che quei nemici possano essere solo la Russia o la Cina, gli unici due Paesi che dispongono di risorse materiali e umane, ed eventualmente tecnologiche, per sfidare l’egemonia americana.

Come era facile prevedere, i due Paesi non gradirono. Dopo poche settimane, il Presidente russo Putin fu infatti laconico nel segnalare il fastidio provato di fronte a quella mossa.

Nei giorni scorsi, la Cina ha preferito passare ai fatti: un missile ballistico ha distrutto un suo satellite in orbita. Pura dimostrazione di forza, che assume pero’ qualche significato in piu’ alla luce di un’altro episodio. Alcuni mesi fa, Pechino, con un laser proveniente da una sua postazione terrestre, illuminò un satellite americano in orbita nello spazio. In sostanza, prima la Cina ha fatto capire che e’ in grado di prendere la mira. E poi, ha dimostrato di saper prendere buoni voti al poligono di tiro.

Piu’ genericamente, cio’ significa che la Cina non e’ assolutamente intenzionata a lasciare che Washington stabilisca incontrastata il suo dominio stellare.

Come segnalato a suo tempo, evoluzioni di questo genere erano e sono assolutamente prevedibili. E anzi, ci sarebbe da meravigliarsi se non fossero avvenute.

A questo punto, non resta che da capire quali saranno le nuove mosse degli Stati Uniti, in special modo dopo la prova di forza cinese. La postura offensiva che attualmente caratterizza gli Stati Uniti prescrive(rebbe) una semplice azione: una manovra preventiva contro i possibili rivali (Mearsheimer, 2001), ovvero la Cina. E’ evidente, pero’, quanto difficile sia agire in tale senso per gli Stati Uniti: indebolita internamente dall’opposizione alla guerra in Iraq, ed esternamente dagli ambigui risultati ottenuti in Medio Oriente, Washington non si puo’ permettere di spendere altro capitale politico (soprattutto in termini di legittimita’ internazionale), anche perche’, mentre la sfida allo spazio sta solo iniziando, quella alla sua leadership terrestre è in prodigiosa evoluzione, come la questione iraniana (o le bizze venezuelane) ci ricorda giornalmente.

Gli Stati Uniti sono e saranno ancora per qualche tempo la piu’ grande potenza del mondo. La Cina fra una quindicina d’anni potrebbe però raggiungere la parita’, a meno che qualcuno decida di fermarla. Il problema consiste nel fatto che il mantenimento della leadership e’ costoso, e richiede la cooperazione dei propri alleati, specie in termini di condivisione di alcuni costi “fissi”. L’amministrazione Bush e’ stata straordinariamente brillante nell’alienarsi gran parte dell’opinione pubblica mondiale e nel allentare i legami con molti suoi alleati. E d’altronde e’ proprio cio’ che succede seguendo una strategia offensiva.

Il vero dilemma riguarda pertanto la capacita’ degli Stati Uniti di mantenere la loro leadership mondiale e piu’ precisamente lo stato della loro forza relativa. Gli USA sono troppo forti per essere sfidati (Wohlforth, 1999) o non lo sono abbastanza (Layne, 2006)? Se l’affermazione corretta e’ la prima, allora gli USA non devono temere le conseguenze delle loro azioni (Brooks and Wohlforth, 2004) e quindi possono tranquillamente proseguire con l’attuale strategia offensiva. Se pero’ la risposta corretta e’ la seconda, allora Washington dovrebbe tenere fortemente in considerazione gli effetti dei suoi gesti, soprattutto in termini di credibilita’ internazionale, e di influenza sul comportamento degli altri attori (ovvero se una tale politica stia spingendo il resto del mondo a temere Washington, e quindi eventualmente ad unirsi per contrastarla) (Walt, 2005; Jervis, 2005).

Lungi dal voler fare previsioni, conviene rifarsi ai Classici per trovare qualche ispirazione o frammento di saggezza. Tucidide diceva che i forti fanno cio’ che vogliono, i deboli subiscono cio’ che devono. Proprio per questo motivo, Machiavelli suggeriva come principio cardine la prudenza, che per Hobbes implicava il riconoscere come suprema legge della politica estera di un Paese la sicurezza del proprio popolo. In altre parole, riportando la celebre frase del piu’ grande politico del XX secolo, “In guerra, determinazione; nella sconfitta, resistenza; nella vittoria, magnaminita’; in pace, bevolenza“.

In modo piu’ semplice, cio’ significa che, a meno di compiere atti di fede nei confronti del Realismo Offensivo di Mearsheimer e Ross, non c’e’ alcun motivo per cui credere che la Cina sara’ inevitabilmente il prossimo nemico dell’Occidente (Johnston, 1995). Conviene dunque agire con prudenza nei suoi confronti. Il rischio altrimenti e’ di darle numerose ragioni per diventarlo (Goldstein, 2005).

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