di Mauro Gilli
Con le dimissioni di Donald Rumsfeld dalla carica di Segretario alla Difesa dovute al successo del partito democratico alle elezioni di mid-term, finisce un’era. Un’era che è iniziata nelle ore successive all’11 settembre, e che è durata fino ad oggi. La fine di una politica estera basata spesso, forse troppo spesso, su formule adiplomatiche, e sulla convinzione che la forza militare impiegata in guerra potesse essere sufficiente per garantire agli Stati Uniti il raggiungimento dei loro obiettivi.
Il continuo peggioramento della situazione irachena non è bastato a rendere evidente la necessità di una riformulaizone della strategia impiegata. Eppure, che in quella strategia vi fossero i semi dei successivi problemi era ormai evidente da molto tempo. Con i risultati delle elezioni di ieri è diventato palese un ripensamento completo. E le dimissioni di Rumsfeld, il principale architetto della campagna irachena, sono diventate obbligate.
L’era di Rumseld è stata contraddistinta da due linee guida. In primo luogo, secondo Rumsfeld la politica estera dell’unica superpotenza era di dominio del Pentangono (il Minitero della Difesa) e non del Dipartimento di Stato (il Ministero degli Esteri). In secondo luogo, l’impiego della tecnologia avrebbe risolto i problemi che generalmente un Paese impegnato in una guerra – e specialmente in una guerra di occupazione – si trova a dover affrontare.
Il primato del Pentagono
La scarsa considerazione del ruolo giocato dal Dipartimento di Stato è diventata evidente durante la crisi irachena del 2003. Nonostante l’inganno francese – la richiesta di una seconda risoluzione ONU, motivata dalla volontà della Francia di Chirac di ostacolare la strategia americana -, come ha scritto Stephen Walt nel suo Taming American Power (2005), gli Stati Uniti non hanno fatto molto per raccogliere consensi in giro per il mondo.
Ovviamente, giudicare con gli occhi di oggi i fatti di ieri è un esercizio pericoloso, e per questo motivo, per non cadere in errori grossolani, bisogna ricordare il clima post-11 settembre e la paura di nuovi attacchi. Ma ciò non impedisce un ragionamento a mente fredda: la decisione di mettere in secondo piano la diplomazia non può essere ascritta completamente alle necessità impellenti (la prevenzione di eventuali progetti offensivi del regime iracheno). Essa viene infatti spiegata in buona parte dalla scarsa considerazione che l’amministrazione americana – e in particolare proprio il segretario alla difesa Rumsfeld – avevano verso gli alleati (“gli Stati Uniti possono compattere due guerre contemporaneamente”, era solito dire Rumsfeld nei mesi precedenti alla guerra in Iraq).
Proprio questa scarsa considerazione, però, si è rivelata fatale. La mancata approvazione di una “seconda risoluzione ONU” sull’inizio della Guerra non decretò, come ancora qualche opinion maker continua a dire, la natura illegale della guerra. Piuttosto, rendendo implicita la volontà degli Stati Uniti di poter “agire da soli”, li obbligò anche a “rimanere da soli” nel periodo successivo. Se gli Stati Uniti avessero potuto contare anche su altri Paesi oltre a quelli della Coalition of the Willing, il costo della presenza in Iraq per l’esercito americano sarebbe stato inferiore, almeno marginalmente (molti dei willing, infatti, diedero un contributo molto limitato alla stabilizzazione dell’Iraq dopo il rovesciamento del regime).
Il primato della tecnologia
Per quanto riguarda invece il ruolo della tecnologia, l’errore di Rumsfeld, imputatogli sin dall’immediato “dopo-guerra”, fu quello di credere che la sua applicazione intensivapotesse esonerare gli Stati Uniti dal costo di una occupaizone militare. Detto in modo più diretto: Rumsfeld credeva – o, forse, sperava – che l’applicazione della tecnologia potesse ridurre il numero di soldati impiegati in territorio iracheno.
Questa strategia non è stata solo perdente – d’altronde, ad eccezione di pochi studiosi (ad
esempio Max Boot, le cui competenze in materia, però, possono diventare materia di dibattito) vi è un consenso abbastanza diffuso nella comunità accademica sul fatto che la tecnologia non sia determinante per vincere le guerre.
A questa visione si è aggiunta quella, assai più azzardata, basata sulla sicurezza che l’immediato dopo guerra non avrebbe rappresentato alcun serio problema per le forze americane, visto che gli iracheni sarebbero stati “liberati”. Queste due considerazioni hanno così contribuito a rafforzare la visione di Rumsfeld sulla non-necessità di un incremento delle truppe in loco per facilitare la ricostruzione post-bellica. Ciò ha funzionato fino a quando, nel mese di agosto del 2003, non è iniziata la controffensiva degli ex-baathisti e l’arrivo di guerriglieri da un po’ tutto il mondo musulmano. A quel punto, mandare più soldati era ormai impossibile. Significava ammettere di aver sbagliato previsioni e, ancora più importante, significava mandare soldati in una zona che si infiammava.
I riflessi sulla politica estera americana
La più grande lezione per gli Stati Uniti, però, non riguarda né l’importanza della diplomazia, né l’applicazione delle tecnologie in guerra. Si tratta di una lezione che avrà, molto probabilmente, grandi riflessi sulla politica estera americana dei prossimi anni. Come ha scritto lo storico Niall Fergusson nel suo Colossus: The Price of the American Empire (2004), il popolo americano è reticente, se non addirittura contrario, a sostenere il costo dell’egemonia americana – anche in termini di vite umane. Queste elezioni dimostrano la correttezza di questa analisi.
E’ ancora troppo presto per fare previsioni. Certo è che, come ha scritto Marta Dassù sul Corriere della Sera di ieri (8 novembre), a Washington inizierà una riflessione molto profonda sulla politica estera americana nel suo complesso. Indipendentemente da chi andrà alla Casa Bianca nel 2008, non è azzardato pronosticare che la strategia in Iraq, con buone probabilità, sarà la prima a subire una revisione.
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