di Mario Seminerio
Una vittoria dei Democratici nelle elezioni di Midterm può contribuire a ridurre il deficit federale? Secondo alcuni osservatori ciò potrebbe effettivamente accadere. Per William Niskanen, presidente del Cato Institute ed ex presidente del Council of Economic Advisers durante la presidenza Reagan, il “governo diviso” servirebbe a bilanciare gli eccessi, soprattutto quelli di prodigalità fiscale. Quale evidenza storica, Niskanen cita gli unici due periodi di restrizione fiscale vissuti dagli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra: gli ultimi sei anni della presidenza Eisenhower e gli altrettanti della presidenza Clinton, due casi di Congresso controllato dall’opposizione.
Durante i periodi di “governo diviso” il tasso di crescita medio annuo della spesa pubblica è stato dell’1.73 per cento. Per contro, durante i periodi di “governo unificato” (presidenza e Congresso appartenenti allo stesso partito) la spesa media annuale è aumentata del 5.26 per cento. Niskanen rileva poi che anche le avventure militari degli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo sono iniziate in regime di governo unificato. Più in generale, le elezioni di Midterm sembrerebbero quindi essere utilizzate dall’elettorato come occasione per moderare quelli che vengono percepiti come eccessi del governo unificato, e per costringere la classe politica a riforme bipartisan. Così, le riforme fiscali di Reagan del 1981 e del 1986 furono entrambe approvate da una Camera dei Rappresentanti controllata dai Democratici, ed hanno resistito al tempo. Nel 1983 il presidente Reagan raggiunse un accordo con il Congresso Democratico per riformare la Social Security attraverso tagli ai benefici e maggiori contributi dopo che lo stesso Reagan, per mezzo di tagli d’imposta e forti incrementi della spesa per la Difesa, determinò un’esplosione del deficit federale, passato in soli due anni di presidenza da 79 a 208 miliardi di dollari. Discorso analogo per la riforma del welfare del 1996, approvata dall’Amministrazione Clinton e da un Congresso Repubblicano, quello del Contratto con l’America dello speaker Newt Gingrich.
Dopo la caduta dell’ultimo governo unificato (nel 1994, con la perdita della Camera da parte dei Democratici), il budget federale è passato da un deficit di 164 miliardi di dollari nel 1995 ad un surplus di 236 miliardi nel 2000. Sotto Bush figlio, il surplus si è tramutato in un deficit di 413 miliardi di dollari al picco del 2004 ed al termine dell’anno fiscale 2006, lo scorso 30 settembre, si trovava al minimo quadriennale di 248 miliardi anche se il Congressional Budget Office ne prevede un ampliamento a 286 miliardi nell’anno fiscale 2007, a causa della riduzione di entrate fiscali indotta dal rallentamento congiunturale.
Secondo Peter Orszag, senior fellow in economic studies della Brookings Institutions ed ex consigliere economico del presidente Clinton, se i Democratici avessero controllato il Congresso negli ultimi sei anni il deficit sarebbe stato inferiore, perché molti tra essi si erano opposti ai tagli fiscali di Bush. Secondo le stime di Orszag i tagli fiscali sarebbero costati al bilancio federale oltre 1.000 miliardi di dollari dal 2001. Giova segnalare che Orszag non ritiene che i tagli fiscali (che a suo giudizio non sarebbero stati così ampi in regime di divided government) si siano ripagati in termini di maggiore gettito da essi indotto.
Quest’anno i Democratici si presentano con una piattaforma di ripristino della fiscal responsibility, per tornare ai surplus dell’era Clinton, mentre Bush rivendica il raggiungimento anticipato di tre anni dell’obiettivo di dimezzamento del deficit federale, ma omette di segnalare che tra il 2001 ed il 2006 la spesa pubblica è cresciuta del 42 per cento, contro il 19 per cento del quinquennio precedente. Né è possibile affermare che tale espansione di spesa sia unicamente frutto dello stato di guerra in cui gli Stati Uniti si trovano dall’11 settembre 2001.
Naturalmente, i piani bipartisan possono essere politicamente rischiosi e costosi: nel 1990 il presidente Bush senior ed i leader democratici del Congresso negoziarono per settimane un piano di riduzione del deficit che costrinse il padre dell’attuale presidente a sconfessare la famosa frase “Read my lips: no new taxes” pronunciata il giorno dell’accettazione della candidatura presidenziale.
Riguardo le direttrici di contenimento del deficit, molti leader congressuali democratici hanno già promesso di reintrodurre regole di pareggio di bilancio (la famose pay-as-you-go, allentate da Bush nel 2002), che contrastano il deficit spending prevedendo che tagli d’imposta e nuove spese debbano essere preventivamente finanziate. Una sorta di equivalente dell’articolo 81 della costituzione italiana, insomma, anche se l’efficacia di quest’ultimo è plasticamente rappresentata dallo stock di debito pubblico cumulato fino ad oggi dal Bel Paese.
Stiamo insomma assistendo ad una sorta di nemesi storica, con i Democratici (da sempre dipinti dai repubblicani come il partito del tax and spend) chiamati a soccorrere quella che nel GOP appare una minoranza minacciata d’estinzione, i conservatori fiscali.
Uno degli ambiti dove la spesa pubblica federale appare fuori controllo è quello della sanità, minata dall’introduzione della gratuità dei farmaci per i soggetti ultrasessantacinquenni, senza riferimento alcuno a requisiti reddituali (Medicare, lettera D), oltre che dall’introduzione a fine 2003 degli Health Savings Accounts (HSA), che consentono ai lavoratori di accantonare in sospensione d’imposta parte del proprio reddito su conti di risparmio individuali. Tale misura si è dimostrata del tutto controproducente, sul piano della finanza pubblica, poiché la deducibilità fiscale degli accantonamenti agli HSA finisce con l’impedire l’effetto calmieratore che deriva dalla compartecipazione dell’assicurato alla spesa sanitaria. I democratici potrebbero tentare di introdurre il principio del Single Payer, sfruttando cioè la forza contrattuale di cui dispone Medicare, con i suoi 43 milioni di assicurati, per trattare su base centralizzata migliori condizioni di fornitura dei farmaci da parte delle imprese farmaceutiche. I repubblicani, per contro, tendono a confermare misure che utilizzano denaro pubblico per espandere l’assicurazione sanitaria privata.
Ma quali potrebbero essere le misure di contenimento del deficit e di rilancio dell’economia che un divided government potrebbe attuare? Secondo Kevin Hassett, direttore degli studi di politica economica dell’American Enterprise Institute, ed ex primo consigliere economico del senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, il primo passo dovrebbe consistere in un ridisegno dell’attuale sistema fiscale verso un’imposta progressiva sui consumi. Secondo alcuni studi, un sistema di questo tipo potrebbe aggiungere al prodotto interno lordo da 5 a 10 punti percentuali in un decennio, a parità di pressione fiscale complessiva. La nuova legislazione fiscale dovrebbe inoltre puntare a ridurre l’aliquota d’imposta effettiva sulle società, anche per stimolare l’investimento diretto estero. La seconda misura, secondo Hassett, dovrebbe essere la fissazione dell’obiettivo del pareggio di bilancio entro l’elezione presidenziale del 2008, anche attraverso la drastica riduzione di agevolazioni fiscali quali l’imposizione di un tetto massimo alla deducibilità fiscale dei pagamenti d’interesse su mutui ipotecari, attualmente illimitata. Occorrerebbe inoltre, come detto sopra, reintrodurre regole per mantenere il bilancio in pareggio anche dopo il 2008, rafforzando il meccanismo del pay-as-you-go ripristinandone la validità anche per i tagli d’imposta. Sempre secondo Hassett, è necessario rimuovere la legislazione Sarbanes-Oxley, introdotta dopo lo scandalo Enron, che ha finora appesantito di oneri impropri le società quotate, inducendo molti delisting e scoraggiando le nuove quotazioni, soprattutto da parte di aziende estere.
La quinta azione dovrebbe essere il ripristino dell’equilibrio finanziario della Social Security attraverso la riduzione del tasso di crescita dei benefici (magari maggiore per i redditi più elevati) e consentendo che una porzione dei contributi sociali attualmente a carico del lavoratore confluiscano in conti di risparmio individuali.
Tutti temi di cui, in questa campagna elettorale, non vi è stata praticamente traccia.
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