di Pierangelo De Pace
Le leggi proibizioniste contro alcool e droghe producono solitamente effetti di natura economica e sociale difficilmente controllabili e prevedibili. Cercherò di chiarire alcuni punti importanti affrontando il problema attraverso logiche prevalentemente economiche. Eviterò, pertanto, di ricorrere ad argomenti di tipo libertario e di matrice conservatrice o religiosa per giustificarne a priori l’abolizione o l’adozione. Mi riferirò in linea di massima al caso americano, per il quale esistono dati e studi di rilievo, invitando il lettore a confronti e conclusioni che possano valere in senso più ampio.
Un punto comune sul quale penso che tutti siano d’accordo è la connessione tra l’uso di droghe e le azioni criminali, da quelle più lievi a quelle di natura più violenta. Esiste invece ampio disaccordo su quale sia il segno di tale connessione: coloro che si dichiarano a favore di leggi proibizioniste affermano che sia l’uso stesso di droghe la causa principale e scatenante dei crimini più sanguinosi; i più scettici, avversi ai metodi attraverso i quali la guerra alla diffusione ed all’uso della droga è condotta attualmente e di conseguenza più orientati verso leggi antiproibizioniste, sono generalmente dell’opinione che sia il tentativo di proibirne l’uso ed il consumo a causare un numero elevato di fatti di sangue.
A tal proposito, si osservino i due grafici seguenti (fonte: Drugs, Violence and Economics di David Friedman, il quale a sua volta si riferisce ad un articolo del 1999 di Jeffrey A. Miron, al momento Professore di Economia presso la Boston University). La prima figura riporta l’andamento temporale del tasso di criminalità misurato dal numero di omicidi ogni 100.000 abitanti negli Stati Uniti su un periodo di 100 anni, dal 1900 al 2000. La seconda descrive invece l’evoluzione, in termini reali e lungo lo stesso periodo di tempo, della spesa nazionale pro-capite destinata alle agenzie federali incaricate di far rispettare le leggi proibizioniste e/o restrittive riguardanti droga ed alcool.
Un’analisi veloce sembra fornire evidenza a supporto delle tesi antiproibizioniste: negli Stati Uniti d’America gli omicidi si mantennero alti durante il periodo proibizionista (1920-1933, periodo in cui il 18esimo Emendamento della Costituzione degli USA in tema di sostanze alcooliche rimase in vigore); si ridussero sostanzialmente dopo l’abrogazione delle leggi contro il consumo e la vendita di alcool; aumentarono di nuovo a partire dalla metà degli anni ’60 dello scorso secolo, allorchè le risorse impiegate per la lotta alle droghe illegali divennero più ingenti. Da allora, il numero di omicidi si è mantenuto su livelli assai elevati.
Quella che appare come una chiara correlazione tra due variabili sembra indicare anche un sospetto rapporto di causalità: come lo stesso Miron conclude in un suo studio statistico del 1999, i tassi di criminalità recenti sono più alti del 25%-75% rispetto ai livelli che prevarrebbero in completa assenza di leggi proibizioniste.
Milton Friedman, Professore Emerito di Economia presso la University of Chicago, nonchè Premio Nobel nel 1976 e da sempre convinto sostenitore di leggi antiproibizioniste, afferma che, nei periodi in cui le leggi contro vendita e consumo di alcool furono in vigore negli USA, le morti per avvelenamento e consumo eccessivo di bevande ad alto contenuto alcoolico aumentarono in maniera drammatica. Nella stessa maniera, a partire dagli anni ’70 del ‘900, da quando, cioè, la guerra alle droghe illegali si fece più intensa, le morti da overdose o causate dall’uso di sostanze adulterate e “tagliate” male sono diventate più numerose e frequenti.
Come qualcuno fa notare, l’introduzione di leggi antiproibizioniste potrebbe indurre più persone all’uso di droghe, ma questa conseguenza non è affatto chiara ed univoca. Il meccanismo funzionerebbe nel seguente modo: legalizzando, si distruggerebbe automaticamente il mercato nero delle droghe, il loro prezzo diminuirebbe drasticamente e la domanda tenderebbe ad aumentare di conseguenza. Questo potrebbe verificarsi con molta probabilità, ma si facciano anche le seguenti osservazioni: la marijuana è una droga dalla composizione fisica relativamente pesante e spessa. Per queste sue caratteristiche, i governi di ogni Paese hanno avuto un discreto successo nella sua interdizione rispetto a droghe di altro genere, strutturalmente più leggere e ben più pericolose come la cocaina o l’eroina. La diversa natura fisica di queste sostanze ha fortemente influenzato i tassi di successo delle forze dell’ordine nella lotta alla droga, ma ha anche influito sul prezzo della marijuana, aumentato enormemente nel tempo: le organizzazioni illegali che la producono e commerciano devono correre rischi più elevati per arrivare al consumatore finale, per cui tendono a praticare prezzi al consumo maggiori. Come se non bastasse, a causa dei rischi da parte delle organizzazioni trafficanti connessi con la distribuzione di droghe meno pericolose, si è sviluppato nel tempo l’incentivo a creare sostanze più potenti e meno rintracciabili ai controlli. L’effetto finale è stata la progressiva sostituzione del consumo di marijuana con il consumo di cocaina ed eroina; ma anche di crack, nato dal tentativo di rendere la cocaina più pratica nell’utilizzo e meno costosa. Tutto questo rappresenta una sorta di naturale innovazione imprenditoriale sviluppatasi nel contesto di un mercato illegale allo scopo di massimizzare i profitti. Esattamente come accadrebbe in qualunque altro mercato.
Legalizzando il mercato delle droghe, si è detto, la domanda di droghe potrebbe aumentare. A chi contesta il fatto che l’abbattimento conseguente e generalizzato del prezzo di tali sostanze indurrebbe un maggior numero di persone ad utilizzare droghe pesanti e dagli effetti dannosi, Friedman propone risultati empirici interessanti. Lo stesso meccanismo che porta gli individui a preferire le droghe pesanti quando il prezzo delle droghe leggere aumenta (come descritto brevemente nel caso di marijuana, cocaina ed eroina), funzionerebbe nella maniera opposta nel caso in cui i prezzi si abbassassero. Si assisterebbe probabilmente ad un maggior consumo di erba e marijuana a discapito di cocaina, crack ed eroina. E questo, in un’ottica di costi e benefici, costituirebbe senza ombra di dubbio un miglioramento desiderabile. Senza considerare il fatto che migliaia di bambini nati da madri tossicodipendenti non sarebbero più costretti a convivere sin dalla nascita e senza colpa alcuna con i problemi associati al consumo di droghe pesanti o con seri problemi di salute (in Maryland, ad esempio, il 25% dei bambini nati in ospedale manifesta i sintomi peculiari di questa dipendenza non scelta). Se si legalizzasse l’uso di droghe, una madre tossicodipendente non avrebbe alcun timore a richiedere assistenza medica prima di dare alla luce un bambino potenzialmente malato. Oggi finirebbe invece direttamente in galera, motivo per cui raramente l’assistenza medica prenatale è formalmente richiesta.
Allo stato attuale delle cose, i costi legati al tentativo di far rispettare il divieto di vendita e di consumo della sola marijuana negli Stati Uniti ammontano a circa 8 miliardi di dollari all’anno. Legalizzarne la diffusione sull’intero territorio nazionale implicherebbe un ingente risparmio in termini di spesa pubblica ed in più garantirebbe un gettito fiscale aggiuntivo nell’ordine dei 6.5 miliardi di dollari annui (limite massimo ipotetico nel caso in cui la droga fosse tassata, pesantemente, come correntemente vengono tassate le bevande alcooliche). Ma non è solo la questione strettamente venale che importa in casi come questi, anche se vi è da dire che quelle risorse recuperate in tal maniera potrebbero essere impiegate più saggiamente in progetti ed investimenti alternativi ed urgenti. Legalizzando l’uso delle droghe, si sconfiggerebbero alla radice le violenze indotte dal traffico illegale, oggi all’origine di un numero rilevante di vittime: si pensi agli scippi, alle rapine, ai furti, agli omicidi compiuti per procurare droga, il cui prezzo elevato non ne permette l’acquisto alle classi più povere.
Ancora secondo Milton Friedman, la proibizione delle droghe leggere e pesanti produce in media, ogni anno, 10.000 omicidi negli USA. Nella sola città di Baltimora, un’area urbana di medie dimensioni con i suoi 620.000 abitanti circa, si registrano usualmente 300-320 omicidi all’anno, l’80% dei quali legati a fatti di droga. Si pensi alle vittime tra le forze dell’ordine impegnate nelle campagne di lotta ai narcotrafficanti, alla corruzione latente e dilagante negli ambienti politici (non si faccia finta di indignarsi, ad esempio, se si scopre che anche un certo numero di parlamentari italiani è consumatore abituale di droghe sia pesanti sia leggere). Si pensi al costo sociale derivante da tasse più elevate, necessarie a finanziare una guerra sanguinosa, dagli esiti incerti e fino ad’ora per niente efficace; tasse da utilizzare per la costruzione di nuove prigioni anche per la detenzione dei consumatori di droghe, strutture che puntualmente diventano insufficienti e che, nel caso italiano, costringono i politici nostrani a promuovere indulti ed amnistie che rimettono in libertà anche i “veri” criminali, quelli potenzialmente più pericolosi per l’intera società.
Dal punto di vista più strettamente economico, l’intervento statale nelle faccende di droga attraverso la proibizione tout court non fa altro che consolidare una situazione di rendita in un mercato non contendibile, quella del cartello dei narcotrafficanti. In un mercato libero e competitivo ci sono migliaia di produttori e consumatori, migliaia di esportatori ed importatori. Chiunque, se volesse, avrebbe la possibilità di entrare nel mercato e comprare o produrre a propria scelta. In una configurazione come quella attuale è praticamente impossibile per il singolo individuo proporsi come produttore o come distributore sul mercato della droga, e neanche come importatore. Le norme vigenti contro il narcotraffico renderebbero il tentativo enormemente costoso per qualsiasi imprenditore senza la struttura, l’organizzazione e le risorse necessarie. Gli unici soggetti in grado di sostenere costi e rischi di questo tipo sono i grandi cartelli internazionali della droga, quelli cioè che hanno a disposizione uomini e mezzi sufficienti a fronteggiare con successo le limitazioni ed i divieti imposti dalla legge. La logica conseguenza è che il prezzo delle droghe si mantiene alto e questo esclusivamente per effetto delle politiche del governo che, di fatto, finiscono per proteggere l’oligopolio instauratosi nel tempo in questo particolare mercato. Una condizione ideale per questa gente, disposta anche ad accettare perdite in termini di vite umane pur di veder crescere i propri profitti.
Nel frattempo, oltre cinquecento economisti hanno deciso di firmare un appello a favore della legalizzazione della marijuana. Gli accademici, di fama mondiale e prevalentemente affiliati ad università americane, invitano l’intero Paese ad aprire un dibattito serio sulla legalizzazione di questa sostanza, convinti che sia possibile e desiderabile un regime in cui la marijuana sia innanzitutto legale e tassata e/o regolata come qualsiasi altro bene di consumo. La loro ferma intenzione è quella di portare all’attenzione di tutti i risultati teorici ed empirici che indicano come l’antiproibizionismo possa indurre benefici sociali ed economici non trascurabili e decisamente superiori agli eventuali ed inevitabili costi.
La conclusione di questo articolo è ovvia e naturale: le politiche economiche ed i problemi in generale non si affrontano facendo guidare la propria azione da principi morali discutibili e sui quali non tutti sono d’accordo. Le soluzioni si ottengono trattando le questioni in maniera oggettiva, nel caso economico analizzando a fondo costi e benefici di strategie alternative. In queste poche righe ho cercato di mettere in evidenza gli aspetti positivi dell’introduzione di leggi antiproibizioniste. Si dimostri con studi seri che la situazione attuale è preferibile nonostante tutto, ma non la si difenda per partito preso e senza confronto critico. Nel frattempo tanta gente continua a morire a causa di politiche che potrebbero essere migliorate e che si sono rivelate storicamente fallimentari.
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