Ticket al pronto soccorso: una misura condivisibile, ma…

di Pierangelo De Pace 

La Finanziaria per l’anno 2007 proposta dal governo di centrosinistra, come ormai risaputo, non incide profondamente dove avrebbe dovuto (sul versante della spesa corrente) e propone aggiustamenti fiscali in grado di far rientrare l’Italia nei parametri previsti dal Patto di Crescita e Stabilità dell’Unione Monetaria (nella fattispecie, il 3% del rapporto debito-PIL) nel giro di un solo anno facendo leva su tasse ed imposte più elevate che finiranno per colpire grandi fasce della popolazione, a meno che opportune modifiche ed emendamenti non siano proposti ed approvati entro il 31 dicembre. Tra le varie misure previste e passate quasi inosservate, una in particolare merita un commento adeguato: l’introduzione del ticket al pronto soccorso per le prestazioni non urgenti.

Più specificamente, è previsto che per le visite specialistiche e per la diagnostica non sia mutato il tetto di 36,15 euro di ticket. Si pagherà invece una quota fissa di 10 euro per ogni ricetta che potrà contenere al massimo 8 prestazioni. Restano esclusi dal provvedimento gli esenti. In tutte le Regioni italiane, poi, sarà esteso il pagamento al pronto soccorso delle prestazioni specialistiche e diagnostiche eseguite senza che vi sia urgenza, in caso non diano seguito a ricovero. Si pagheranno 23 euro per la visita medica e 18 euro in caso di accertamenti diagnostici. Anche in questo caso, coloro che hanno diritto all’esenzione non saranno chiamati al pagamento del ticket. Lo scopo è quello di restituire al servizio il suo scopo, cioè l’intervento sulle urgenze.

Nel contesto italiano, in cui il sistema sanitario è prevalentemente pubblico ed in cui tutti i cittadini hanno libero accesso ai servizi nazionali, la misura escogitata dal Governo sembra avere una sua logica razionale ed è giustificata dal tentativo di contenere la spesa pubblica (almeno nel capitolo riguardante la sanità), fermo restando il fatto che il taglio tanto auspicato non è stato inserito tra i provvedimenti in questione.

A questo proposito, è facile immaginare le lamentele di chi osserva i costi individuali legati alla sanità aumentare di anno in anno, a fronte di servizi stabili (se non in discesa) dal punto di vista qualitativo. Le soluzioni che si propongono, sempre nell’alveo di un sistema che sembra dover essere nazionale e nazionalizzato senza margini di discussione, sono varie: oscillano tra la riduzione degli sprechi (ovvietà a cui non è stato ancora dato un contenuto preciso) e la razionalizzazione della spesa sanitaria (altro concetto a cui in tanti al governo, sia in quello attuale, sia in quelli passati, hanno rinunciato ad assegnare un significato definito). Tutto ciò sulla base del’immutabile paradigma in base al quale l’assistenza sanitaria sia un diritto umano universale ed irrinunciabile.

Tuttavia, non tutto quello che appare desiderabile è anche corretto o, in termini più propriamente economici, efficiente. Sotto il profilo etico, la maggior parte dei diritti individuali ci obbligano semplicemente a rispettare le libertà altrui, senza lederne la portata. Non ci obbligano invece a pagare affinchè altri possano esercitare tali libertà. La questione riguardante i servizi sanitari per tutti (e possibilmente a prezzi accessibili) rientra nella categoria di quegli obiettivi desiderabili, che, tuttavia, se elevati al rango di diritti fondamentali ed indiscutibili, rischiano di degenerare in inefficienze e disuguaglianze assai gravi a causa del fatto che per poter essere realizzati richiederebbero l’uso ed il consumo di risorse che sono scarse per definizione.

Prendo spunto da un semplice esempio elaborato da Donald J. Boudreaux, professore di Economia alla George Mason University di Fairfax in Virgina (USA). Si pensi al cibo: se si desidera che la sanità sia un bene universalmente disponibile, perchè, sulla base delle stesse argomentazioni, non ritenere che il governo sia moralmente obbligato a fornire cibo all’intera popolazione, come se questo fosse un diritto naturale di tutti? In fondo la salute di una persona dipende in buona parte dalla propria alimentazione, nella quasi totalità dei casi.

Per poter soddisfare questa esigenza dei propri cittadini, lo Stato dovrebbe innanzitutto innalzare le tasse per anticipare le spese per l’acquisto e la produzione di generi alimentari. A questo punto, tutti magazzini della nazione sarebbero riempiti ed i cittadini avrebbero il diritto di entrare in questi depositi e prendere cibo gratis. Questo sistema sarebbe in grado di funzionare per sempre? La risposta a questa domanda, chiaramente retorica, è un no inequivocabile. In questa maniera, infatti, molte persone tenderebbero a rifornirsi di cibo in eccesso rispetto alle proprie necessità, lasciando tanti altri nelle condizioni di non poter soddisfare le proprie esigenze più urgenti. I magazzini si svuoterebbero prima del previsto e lo Stato sarebbe costretto a richiedere tasse ancora più elevate per produrre altro cibo ed in maggiore quantità, innalzandone il costo sociale complessivo.

Ma se il cibo continuasse ad essere distribuito gratis e a volontà, gli individui imparerebbero presto a portare a casa quanto più possibile, oltre le proprie reali necessità, prevedendo che i magazzini possano svuotarsi presto e all’improvviso. In altre parole, si creerebbe un circolo vizioso di comportamenti scorretti che rischierebbe di porre l’uno contro l’altro vicini di casa e parenti anche per l’accaparramento dei principali e necessari generi alimentari.

Alla fine, proprio per evitare di strangolare i propri cittadini attraverso una pressione fiscale sempre più elevata e per scongiurare il pericolo strisciante di tumulti popolari, lo Stato arriverebbe alla decisione di imporre dei razionamenti decisi centralmente. Il cibo sarebbe dunque un diritto universale solo sulla carta: nella pratica sarebbe severamente razionato da regole ferree. Certamente il governo potrebbe decidere che almeno i generi alimentari di prima necessità siano ancora offerti gratuitamente a tutti i cittadini. E questo, forse, è l’obiettivo che, corrispondentemente, i sostenitori di un servizio sanitario universale hanno in mente: solo i servizi essenziali e più urgenti dovrebbero essere erogati gratuitamente.

In quest’ottica, il ticket proposto dal governo Prodi in Italia sembra essere di certo una buona soluzione. Il problema nasce però nel momento in cui si cerca di definire cosa sia esattamente un “servizio essenziale e/o urgente“. In questo contesto non voglio certamente ipotizzare proposte ispirate dalle degenerazioni di un certo darwinismo sociale, nè ricorrere a definizioni e concetti eticamente discutibili. Ma si pensi alla situazione in cui un dottore affermi – a fronte di interventi costosi – di poter aumentare del 50% la probabilità che un ottantenne sopravviva per un altro anno. O che sia in grado di migliorare del 10% soltanto la probabilità che un venticinquenne viva altri 50 anni. Questi esempi rientrerebbero nella casistica in questione? Nella fattispecie, un intervento medico atto a realizzare obiettivi del genere si configurerebbe come “servizio essenziale“? La risposta a questa domanda, questa volta, è complessa e non scontata. Probabilmente non si tratta nè di un sì, nè di un no. Si entra, in altri termini, in una zona grigia nella quale prendere delle decisioni e compiere delle scelte può diventare assai difficile.

Coloro che chiedono che il governo faccia più sforzi per contenere i costi al pubblico associati all’erogazione dei servizi sanitari fanno richieste eticamente condivisibili, ma dimenticano che l’intervento statale stesso è probabilmente una delle cause principali dei costi sempre più elevati di oggi (sia in termini di ulteriore tassazione, sia in termini di accesso diretto ai servizi nel momento in cui si chiede di usufruirne), di riflesso anche nella sfera della sanità privata. La situazione è analoga a quello che accadrebbe nel caso in cui lo Stato offrisse cibo gratis, come nel breve esempio descritto.

I servizi ed i programmi di sanità pubblica, insieme alla deducibilità e detraibilità di alcune spese sanitarie per determinati soggetti in determinate condizioni, hanno finito con il creare un sistema in cui i pazienti sostengono di tasca propria, al momento dell’erogazione della prestazione medica, solo una parte del costo complessivo. In compenso, la pressione fiscale è salita con il tempo a livelli poco salutari per una economia come la nostra, che avrebbe invece la necessità di essere più snella e competitiva. Tale situazione ha portato alla formazione di enormi inefficienze nel “consumo” di prestazioni sanitarie. Alcune persone consumano (gratis o quasi al momento della prestazione) troppo; tante altre, magari anche con esigenze davvero più urgenti, restano senza.

Il risultato è, come detto, una tassazione sempre più elevata per finanziare servizi sanitari pubblici su cui si riversa una tipologia di consumo che tende a sprecare risorse importanti. Nel settore privato – analogamente e per fenomeni simili, oltre che per il comportamento irresponsabile e scorretto di molti – le assicurazioni sono costrette ad elevare gli importi dei premi da corrispondere. Come se non bastasse, alla fine accade che sia nel pubblico, sia nel privato, tante persone ricevono cure inadeguate o non ne ricevono affatto.

Il ticket del governo può apparire come una possibile soluzione per evitare che la spesa sanitaria si gonfi ulteriormente attraverso la limitazione spontanea dal lato della domanda delle prestazioni non necessarie. Tecnicamente si tratta di una tassa sul consumo, il prezzo aggiuntivo che occorre corrispondere per poter usufruire di un determinato servizio: non intaccando la sfera produttiva individuale e collettiva e non distorcendone le scelte, rappresenta sicuramente una risposta idonea al raggiungimento del fine di contenimento della spesa sanitaria, almeno entro certi limiti. Ma è anche una ulteriore forma di tassazione i cui proventi saranno utilizzati per sussidiare un sistema, basato sul razionamento dell’offerta, chiaramente inefficiente ed inadeguato a garantire gli stessi servizi che si propone; una forma di tassazione che si va ad aggiungere a quella esistente sul reddito, questa teoricamente già finalizzata (in parte) al mantenimento ed al finanziamento della sanità pubblica. Non che non si possano applicare ed esigere entrambe le forme di tassazione; ma, a fronte di una pressione fiscale di per sè elevata, ci si aspetterebbe maggiore cautela e saggezza nell’impiego delle risorse raccolte per non dover ricorrere all’introduzione di misure di questo tipo. Da qui la reale necessità di non combattere solo gli sprechi e di non introdurre solo i correttivi ed i disincentivi atti ad evitare che la spesa decolli. Occorrerebbe anche agire in maniera strutturale ridimensionando l’estensione della sanità pubblica, per poterne ridurre i costi che attualmente ricadono sulla popolazione.

Esiste allora una risposta migliore alle contingenze di cassa del governo? La soluzione ideale, sebbene difficilmente praticabile in Italia a causa delle enormi resistenze morali che un’iniziativa di questo genere solleverebbe, potrebbe essere meno intervento pubblico nella sanità. Le forze del mercato hanno nel tempo abbassato enormemente il costo, innalzato la qualità e migliorato l’accessibilità di tutti i generi alimentari (non solo quelli di primaria necessità). Non c’è motivo di pensare che il mercato non possa fare lo stesso nell’ambito dei servizi sanitari.

Può apparire ironico, ma potrebbe invece essere vero: solo rigettando l’idea che fornire prestazioni sanitarie sia un diritto fondamentale ed irrinunciabile di tutti (un diritto, tra l’altro, finanziato in larga parte da persone che non ne usufruiscono), si potranno aprire le porte per la creazione di un sistema capace di abbattere le barriere e le inefficienze che attualmente sono dominanti.

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