di Pierangelo De Pace
Qualche giorno fa discutevo degli squilibri della bilancia commerciale statunitense in “Partite correnti e bilancia commerciale. Possibili soluzioni per il deficit statunitense“. Nel breve articolo in questione cercavo di mettere in evidenza quali siano le cause principali del deficit commerciale americano ed i motivi per i quali ci sia da preoccuparsi nel medio-lungo periodo, se le necessarie contromisure non siano prontamente adottate dal governo USA fin da ora.
Contestualmente mi sforzavo di proporre alcune soluzioni pratiche in grado di influenzare le dinamiche commerciali che coinvolgono la prima potenza economica e politica mondiale e di risolvere, o almeno ridimensionare, il grave disavanzo nei conti delle partite correnti.
Da quella sintetica analisi è nato l’articolo che oggi vorrei proporre all’attenzione dei lettori di questo sito, assai più completo e dettagliato nella descrizione degli strumenti tecnici e teorici necessari per una comprensione approfondita del fenomeno oggetto di studio. Con questo scritto si inaugura la Collana di Economia di Epistemes.org. Con una certa regolarità e frequenza proporremo all’attenzione di tutti approfondimenti, analisi e studi con lo scopo primario di chiarire alcuni dei più complessi e dibattuti temi economici odierni, adottando come sempre un taglio divulgativo ed un linguaggio accessibile, senza però rinunciare al rigore che deve caratterizzare necessariamente lo studio delle scienze sociali e dell’economia in particolare.
Il primo Discussion Paper della serie riprende, dunque, i temi già trattati a cui ho brevemente fatto cenno sopra. Temi riguardanti l’economia USA, che incorre in disavanzi commerciali ingenti e sempre più persistenti a partire dai primi anni ’90. Le proposte di politica economica finalizzate alla risoluzione dello squilibrio sono descritte attraverso gli strumenti forniti da un semplice apparato teorico di riferimento, che risulterà sicuramente di facile comprensione al lettore interessato.
La parte originale e non trattata in queste colonne analizza nel dettaglio la proposta alternativa del famoso economista americano Joe Stiglitz – Premio Nobel per l’Economia nel 2001 e per qualche anno vice-presidente e capo economista della Banca Mondiale – apparsa in data 3 ottobre in un articolo de The New York Times. Oltre a suggerire una riduzione della spesa pubblica per il contenimento della domanda aggregata interna ed il ripristino di un livello di risparmio nazionale accettabile e sufficiente ad invertire le dinamiche commerciali che hanno condotto alla formazione del preoccupante disavanzo americano, Stiglitz consiglia l’introduzione di un sistema fiscale più progressivo rispetto a quello attuale per permettere una maggiore ridistribuzione di reddito dalle classi più ricche a quelle meno abbienti. Se attivato e ben calibrato, un meccanismo del genere sarebbe capace di innalzare i consumi (secondo Stiglitz, ad una riduzione dei consumi dei più ricchi dovrebbe corrispondere un aumento maggiore in valore assoluto dei consumi totali delle classi più basse della popolazione), ridurre il deficit commerciale e sostenere l’economia americana evitando la recessione.
La proposta, purtroppo, non appare ben ideata. O, almeno, sembra essere contradditoria nei mezzi in relazione ai fini che si cerca di raggiungere. L’incoerenza di fondo è ben messa in evidenza da Gregory Mankiw, professore ordinario di economia alla Harvard University di Boston negli Stati Uniti e già capo dei Consiglieri Economici dell’amministrazione Bush. La replica di Mankiw non avviene attraverso organi di stampa ufficiali; compare invece in data 3 ottobre sul suo blog personale, poche ore dopo la pubblicazione dell’articolo di Stiglitz sul NYT. La critica dell’economista di Harvard si concentra in particolar modo sulla proposta riguardante la maggiore progressività delle imposte formulata da Stiglitz, sulla base di due diverse argomentazioni.
Mankiw contesta innanzitutto la possibilità che una ridistribuzione siffatta del reddito possa effettivamente aumentare i consumi complessivi nazionali: sebbene la teoria economica suggerisca qualcosa del genere (ometto i dettagli tecnio-teorici per non appensantire il discorso e rimando alla lettura del Discussion Paper), non esiste evidenza empirica certa a riguardo. Ma pur volendo accettare la validità di tale ipotesi, dalle parole utilizzate da Stiglitz non è chiaro attraverso quale meccanismo si possa giungere ad un livello di risparmio più elevato e ad un conseguente miglioramento della bilancia commerciale. Se il nuovo sistema fiscale riuscisse davvero ad incrementare i consumi nazionali, l’effetto indotto sarebbe un controbilanciamento dei tagli di spesa applicati in prima istanza, con effetti nulli o trascurabili sul risparmio nazionale. Senza contare poi la potenziale riduzione dei tassi di crescita di lungo periodo del prodotto interno lordo dovuta all’implementazione di un sistema fiscale con componenti redistributive assai pronunciate, condizione necessaria per un miglioramento delle esportazioni nette almeno nel breve (attraverso una riduzione – e non un aumento – dei consumi privati).
Nel primo Discussion Paper di Epistemes.org costruisco un semplice modello economico (senza alcuna pretesa di scientificità, almeno nel senso stretto del termine) che spieghi le motivazioni di Stiglitz e che fornisca l’intuizione dei possibili effetti in termini di risparmio e bilancia commerciale. La conclusione a cui giungo è inequivocabile, ed è supportata dalle parole dello stesso Mankiw: la strategia del Premio Nobel è contradditoria e probabilmente inefficace. Nei pochi casi in cui risultasse adeguata (quando cioè fosse causa di una riduzione dei consumi e non di un aumento, come inspiegabilmente auspicato da Stiglitz) sarebbe invece di difficile attuazione pratica (la progressività richiesta al sistema fiscale dovrebbe essere assai elevata per produrre gli effetti desiderati) e pregiudizievole della crescita economica di lungo periodo.
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