Parlare a Pyongyang, perchè Teheran capisca

di Mauro Gilli

Il test nucleare in Corea del Nord di lunedì scorso rappresenta esattamente l’epilogo che Pentagono e Dipartimento di Stato hanno cercato disperatamente di evitare nel corso degli ultimi anni. A questo punto, malgrado le speculazioni, sembra non esserci più alcun dubbio sulla (limitata) capacità nucleare del regime di Pyongyang – che negli ultimi anni ha anticipato a parole più volte questo traguardo.

Poichè nel gennaio 2002 il Presidente degli Stati Uniti disse che il suo Paese non avrebbe accettato che un Stato dell’Asse del Male potesse entrare in possesso di armi nucleari, sembra utile ragionare sugli errori della strategia americana, e sulle possibili soluzioni alla crisi asiatica.

La strategia coreana

Per affrontare gli errori della strategia americana, è necessario considerare innanzitutto le ragioni che possono spingere un Paese a dotarsi di armi nucleari. L’esperimento portato avanti dagli scienziati di Pyongyang, come era già successo nel 2002 quando il mondo venne a scoprire dell’esistenza di un programma nucleare nordcoreano, ha indotto numerosi analisti a paventare rischi apocalittici per l’umanità. Rischi che, secondo costoro, potrebbero concretizzarsi addirittura in un attacco nucleare da parte della Corea del Nord alla costa occidentale degli Stati Uniti.

Se l’obiettivo del regime coreano fosse davvero quello di attacare con armi nucleari gli Stati Uniti o uno dei suoi alleati in Asia (principalmente Corea del Sud e Giappone), non è chiaro per quale motivo Pyongyang abbia sbandierato ai quattro venti il suo programma nucleare. Allo stesso modo, non è chiaro per quale motivo il suo atteggiamento sia stato volontariamente provocatorio (i testi missilistici lo scorso luglio sono sono uno degli esempi possibili), quasi volto ad aumentare la tensione internazionale.

In altre parole: se il suo obiettivo fosse davvero quello di attaccare gli Stati Uniti e i suoi alleati, Pyongyang avrebbe dovuto negare l’esistenza del suo programma, e soprattutto avrebbe dovuto tentare di tenerlo segreto, se non altro perchè un criminale che agisce a viso aperto non si è mai visto. E uno che addirittura annuncia le sue mosse in anticipo appartiene più ai romanzi di Maurice Leblanc che non alla politica internazionale. E infatti, il comunicato con il quale il regime di Kim Jong Il ha informato il mondo intero del successo del suo esperimento nucleare sembra andare contro ogni logica, se si assume che alla base del programma atomico vi sia la volontà di colpire l’America o i suoi alleati.

A queste considerazioni, si aggiunge poi una domanda a cui i profeti di sciagura non hanno finora risposto: che vantaggio avrebbe la Corea dall’attaccare con armi nucleari gli Stati Uniti? La risposta risulta molto semplice: nessuno. Se non il rischio (per non dire la certezza) di una risposta militare tanto decisa quanto spietata. Da migliaia di anni a questa parte, d’altronde, la guerra continua ad esser la continuazione della politica con altri mezzi, e risulta certamente curioso che Pyongyang voglia iniziare una guerra che non ha alcun fine politico e soprattutto alcuna possibilità di vincere.

Analogamente a quanto scritto sopra, se l’obiettivo della Corea del Nord fosse quello di vendere il materiale nucleare ad organizzazioni terroristiche, essa avrebbe fatto attenzione a mantenere il suo programma sotto la massima segretezza, e soprattutto non avrebbe avuto bisogno di fare un esperimento nucleare, visto che per una “bomba radiologica” è sufficiente un livello tecnologico di lunga inferiore.

Generalmente vengono addotte poi altre due spiegazioni dei programmi nucleari di un Paese. Una di queste è il prestigio. Questo non può essere escluso, ma nel caso specifico della Corea del Nord, dato il suo stato malandato, sembra logico attribuire a questo aspetto un ruolo del tutto marginale – per non dire nullo.

L’ultima spiegazione è invece strategica, e più specificatamente vede nelle armi nucleari uno strumento difensivo. Generalmente i commentatori hanno preferito ignorare questo aspetto, individuando nella politica del paese asiatico ribelle una strategia offensiva – dimenticando un “dettaglio”: generalmente gli Stati piccoli e sull’orlo della bancarotta non attaccano le grandi Potenze.

Alla luce delle spiegazioni offerte, proprio quest’ultima sembra però quella più convincente. La Corea del Nord ha tenuto segreto il suo piano nucleare per tutta la seconda metà degli anni ’90, salvo dichiararne pubblicamente l’esistenza dopo che la CIA, nell’ottobre 2002, ne venne a conoscenza grazie ad aclune foto satellitari.

Ebbene, perchè, dopo aver tenuto segreto questo progetto per lunto tempo, Pyongyang si è affrettata a confermarlo una volta che gli Stati Uniti lo hanno scoperto? La risposta non sembra così difficile: colta in fallo, la Corea del Nord ha percorso l’unica strada in grado di permetterle di sopravvivere. Ha alzato la posta in gioco. Ha sostenenuto più volte di disporre di armi atomiche insinuando nei piani alti del Pentagono il dubbio che un’azione ostile da parte americana (un attacco o anche semplici attività di sabotaggio) potesse indurre il regime all’utilizzo di queste stesse armi.

Come l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato, fino a quando uno Stato canaglia non dispone di armi nucleari, esso può essere attaccato. Sorpassata la linea rossa, raggiunto ciò il nuclear-tipping point, questa opzione diventa carta straccia, e il Paese inattaccabile – una lezione che l’Iran sembra aver imparato in fretta.

Dove hanno sbagliato gli Stati Uniti?

Dopo aver fatto queste considerazioni, è possibile individuare gli errori dell’amministrazione americana. Il primo di questi, per quanto paradossale possa sembrare, è stato comunicativo. Nel sistema internazionale le minacce devono essere credibili. E, analogamente, devono essere credibili gli obiettivi si vogliono raggiungere.

Entrambi questi presupposti non sono stati rispettati dall’amministrazione americana nel suo tentativo di risolvere la questione del nucleare nordcoreano. Per quanto condivisibile, l’intenzione originaria – quella di impedire a Pyongyang di dotarsi di armi nucleari – era proiettata all’inesorabile fallimento. Gli Stati Uniti non avevano e non hanno infatti alcuni mezzo per ottenere questo risultato, e l’aver fissato questo traguardo si è tradotto in un autogoal: oggi il Presidente Bush deve ammettere di aver fallito.

Il secondo errore è consistito nel non aver adottato una strategia che mirasse a risolvere il problema alla radice. Poichè, come scritto, l’ambizione nucleare nordcoreana trova la sua giustificazione nel desiderio di mettere al riparo, una volta per tutte, il regime dalle interferenze esterne (americane), una soluzione alla crisi avrebbe dovuto mirare a eliminare questo problema.Con la politica del regime change esso, semmai, è stato rafforzato. Il messaggio formulato dal Presidente Bush nel suo State of the Union Address nel gennaio 2002 (nel quale indicava Iraq, Iran e Corea del Nord come tre paesi che componevano un ipotetico asse del male) può essere stato molto eloquente e chiaro per il pubblico americano, ma in termini di politica estera non sembra aver fatto altro che rafforzare il timore di Pyongyang di essere nella waiting list. E la guerra in Iraq, in questo senso, ha confermato questo timore. Accelerando definitivamente il programma atomico.

L’ultimo errore di Washington è stato il dialogo a sei. La Corea del Nord, fin da subito, aveva chiesto un dialogo bilaterale con gli Stati Uniti. Che invece hanno preferito coinvolgere anche altri Paesi, sull’onda di un improbabile quanto inutile multilateralismo. Questa scelta ha avuto il difetto di non alleviare l’onere per gli Stati Uniti – che sono rimasti il Paese coinvolto nella crisi nordcoreana – e allo stesso tempo, non ha permesso alcun passo in avanti grazie al coinvolgimento di altri Paesi. Senza lanciarsi in fantasiose ricostruzioni geopolitiche, gli Stati Uniti avrebbero potuto accettare il dialogo a due, oppure rigettarlo in toto e lasciare dunque alla Cina la soluzione del problema – accettando quindi la sua egemonia regionale. Con la formula del dialogo a sei, gli Stati Uniti hanno affrontato il problema, senza però volerlo risolvere.

Dopo la crisi

Dopo il test nucleare di lunedì scorso, tutte queste parole risultano però inutili. A posteriori, è facile infatti dispensare critiche e pagelle. La vera incertezza, a questo punto, riguarda però la risposta dell’amministrazione americana, soprattutto in ragione dei riflessi che essa potrebbe avere sulla crisi speculare che avvolge il Medio-oriente (ossia il programma nucleare iraniano).

Il settimanale The Economist, qualche settimana fa, ha sottolineato l’esigenza di adottare sanzioni economiche contro il regime di Pyongyang. Oltre alle ovvie giustificazioni, il giornale inglese adduceva anche la necessità di mandare un chiaro messaggio a Teheran sull’impegno occidentale a prevenire la diffusione di armi nucleari. Non è questa la sede per approfondire l’argomento, ma prima di ogni riflessione, occorre rilevare, come ha fatto Robert Sagan, professore di Scienza Politica all’Università di Stanford, la limitata utilità di queste misure, specialmente nel caso specifico della lotta alla proliferazione nucleare (“How to Keep the Bomb from Iran”, Foreign Affairs, vol. 85, n. 5, Sept-Oct. 2005).

Discutendo in linea del tutto teorica, una soluzione al problema si può trovare nell’alzare la posta in gioco. La Corea del Nord è entrata a far parte del club degli adulti (il club nucleare). Ebbene, Washington può mettere in chiaro un punto: il regime di Kim Jong Il d’ora in poi sarà ritenuto responsabile di qualsiasi incidente che coinvolga materiale nucleare in qualsiasi parte del mondo. Ovviamente questa opzione presenta tanti rischi, non ultimo quello di prestarsi più ad interpretazioni teoriche che non a manifestazioni pratiche. Ma permette anche di affrontare direttamente il nodo della questione: al regime di Pyongyang verrebbe offerta un’ultima opportunità di abbandonare i suoi programmi. Con la consapevolezza che l’indifferenza di fronte a questa proposta significherebbe correre un forte rischio.

Allo stesso tempo, in questo modo verrebbe mandato un messaggio altrettanto chiaro anche all’Iran: portare a termine il programma nucleare significherebbe esporre Teheran al rischio di ritorsione militare in caso di qualsiasi incidente che coinvolga materiale nucleare. Malgrado l’estraneità della Repubblica Islamica.

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