Prodi incontra Ahmadinejad: etica o interesse?

di Andrea Gilli e Daniele G. Sfregola 

La settimana scorsa il presidente del Consiglio Romano Prodi ha avuto un incontro con il presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Mohammed Ahmadinejad. L’incontro, come spesso accade in questi casi, è stato interlocutorio e sembra non aver prodotto alcun risultato significativo a livello internazionale. Tuttavia, un particolare effetto, stavolta interno, pare che il meeting tra i due leader lo abbia esperito.

Un numero consistente di commentatori italiani ha sostanzialmente interpretato l’iniziativa del premier italiano come malauguratamente sfornita di etica. Essere il più alto rappresentante politico degli interessi del Paese, sembra di capire, non esenta dal rifiutare a priori l’incontro con un pari livello straniero, a capo di uno Stato assai importante per le relazioni commerciali nazionali e al centro di una complessa crisi diplomatico-strategica in una regione – quella mediorientale – storicamente prioritaria per l’azione mediterranea dell’Italia. Si sente dire che chi nega l’Olocausto e chiede la distruzione di Israele non merita il confronto. Ma nessuno aggiunge che ciò equivale a dire che non vi dovrebbe essere neanche un dialogo diplomatico con lo Stato rappresentato dall’autore di siffatte affermazioni. E senza diplomazia, le relazioni internazionali, presto o tardi, si sviliscono a confronto bellico. Ne consegue che si accusa l’Iran di preparare la guerra, ma poi per sé stessi si auspica paradossalmente, di fatto, un’unica condotta possibile: la guerra contro l’Iran.
Sul fatto che i toni e il merito delle dichiarazioni di Ahmadinejad sfocino nella farneticazione, non c’è dubbio alcuno. Ma sul fatto che il dialogo bilaterale vada rifiutato a prescindere, invece, i dubbi non mancano. Non si tratta di individui, ma di Stati. Nell’ottica dei rapporti individuali, il farneticante può anche passare per folle ed essere evitato; nell’ottica del sistema internazionale, nessun attore è mai stato irrazionale, perché l’attore è lo Stato e quando questo agisce è per interessi o aspirazioni, non per disturbi della psiche.
Bastano un paio di considerazioni – una generale, una particolare – per comprendere meglio il senso di quanto sin qui si è premesso. Innanzitutto serve constatare che, vista l’assenza di un processo che istituzionalizzi in modo chiaro la politica estera in Italia, risulta complesso giudicare come questa venga condotta e perciò quali siano i suoi fini: ciò valeva ieri, con Berlusconi, e vale oggi, con Prodi. Mentre gli economisti possono studiare la Finanziaria o il Dpef per valutare la politica economica del governo, chi è chiamato ad analizzare la politica estera del nostro Paese è costretto a rifarsi ad una ridda di dichiarazioni, interviste, prese di posizioni e formulazioni di obiettivi generici – non di rado demagogici – in sedi non sempre opportune. In altre parole, per comprendere la nostra politica estera bisogna “aggiustarsi”. E ciò, ovviamente, ha non poche conseguenze sulla capacità e sulla qualità dell’analisi: perché spesso la razionalità che l’analista vuole cercare di cogliere in una serie sconnessa di atti, fatti e parole è la sua, e non quella del governo.
Ma le azioni dei governi si giudicano sulla base del mezzo che si impiega e dello scopo che grazie ad esso si intende raggiungere. Il fatto che in Italia nessuno ponga seriamente delle domande all’esecutivo su quali mezzi disponga e quali scopi si prefigga mediante le proprie azioni in campo internazionale, ma si prediliga il confronto tutto interno e slegato dalla logica del sistema internazionale, oltre a creare un clima culturale fortemente deficitario e inevitabilmente carico di luoghi comuni, non permette all’opinione pubblica di percepire l’urgente necessità di processi istituzionali. Ciò, a sua volta, permette ai politici di distanziare questa evenienza: come qualunque operatore razionale, il politico si guarda bene dall’istituire processi di responsabilizzazione della propria condotta, quali appunto dei documenti programmatici relativi alla politica estera che, una volta pubblicati, costituirebbero un preciso parametro per valutarne le intenzioni in campagna elettorale e le azioni intraprese successivamente. Ideologia, quindi, chiama ideologia. Oggi sulla base dell’ideologia si condannano i gesti di un governo. Domani lo stesso governo, per giustificare la sua condotta attuale, si armerà di altra logora retorica. E così il dibattito italiano rimane sempre quello in cui tutti hanno ragione sulle idee, ma prescindendo puntualmente dai fatti.
In secondo luogo, come il recente caso della Libia insegna, occorre dire che le conversioni – il bandwagoning – possono essere tanto radicali quanto repentine. La Libia, nel dicembre 2003, al tempo ancora “Stato canaglia”, cercò di acquistare del materiale atomico. Quel carico venne intercettato e di lì le pressioni internazionali nei suoi confronti non fecero altro che crescere. Già nel giugno 2004 Gheddafi si convertì all’anti-terrorismo. E pochi mesi fa vi è stata la riappacificazione definitiva anche con gli Stati Uniti. Se si fosse adottata la logica del “non si tratta”, del “regime change”, del rapporto inversamente proporzionale tra il tasso di democraticità dell’ordinamento interno e il pericolo di destabilizzazione esterna, allora Gheddafi sarebbe probabilmente ancora un nemico con cui dovremmo confrontarci.
Ma, come in amore, anche in diplomazia il “mai” e il “sempre” sono imperativi categorici dello spirito, non della condotta. Il caso che ha visto coinvolto il ministro Bonino in Cina, la scorsa settimana, dovrebbe far riflettere sull’insostenibilità di posizioni oltremodo rigide a lungo andare. La recente apertura iraniana sulla sospensione dell’attività di arricchimento dell’uranio, dopo mesi di dinieghi granitici, dovrebbe quantomeno avvicinare al salutare dubbio gli stoici etici nostrani.
L’intenzione di Prodi non era quella di trovare un compromesso sulle posizioni di Ahmadinejad verso Israele, bensì quella di sondare l’atteggiamento negoziale iraniano nella crisi nucleare che vede coinvolto il governo di Teheran. Non è un mistero che l’ambizione principale dell’Italia in quella regione sia quella di entrare a far parte del gruppo dei negoziatori. Se si accettasse la concezione della chiusura totale nei confronti di chi ha detto o fatto qualcosa di eticamente contestabile, allora la politica internazionale da risolutrice diverrebbe osservatrice passiva di una serie di crisi che essa non sarebbe più in grado di controllare. Ulteriormente, ciò finirebbe per privare gratuitamente di opzioni di condotta il nostro Paese, irrigidendone la posizione internazionale e, di fatto, condannandolo all’irrilevanza.
Quanto sin qui si è tentato di spiegare vale a dimostrare che la critica ad un capo di governo per aver incontrato un suo collega nel tentativo di sondare la possibilità di massimizzazione relativa della posizione italiana in una data regione è al meglio un non-sense se non si specifica anche quale fosse il fine ultimo che questo incontro intendeva servire. Una volta, un personaggio non certo tacciabile di intelligenza col nemico e che risponde al nome di Winston Churchill, affermò: “Se Hitler dovesse invadere l’Inferno, allora non mancherei di fare un bel discorso in favore del Diavolo alla House of Commons”. Pur di sconfiggere in guerra un nemico terribile, il grande statista britannico era pronto a perorare la causa del Diavolo. Suona paradossale che per difendere gli interessi economici e diplomatici del proprio Paese in tempo di pace, un presidente del Consiglio italiano non possa invece incontrare il leader di uno Stato-chiave in un’area strategicamente rilevante quale quella che unisce il Mediterraneo orientale al Golfo Persico.

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