Welfare, una partita di giro

di Mario Seminerio

Secondo voi, quanti sono i cittadini tedeschi che dipendono dallo stato? Da un grande paese industrializzato, con forte vocazione all’export, ci si potrebbe attendere un numero piuttosto contenuto, nell’ordine del 20 per cento, giusto? Sbagliato. Secondo un recente studio della Bild Zeitung, che cita dati dell’Ufficio Federale di Statistica, circa il 42 per cento dei tedeschi fanno affidamento sullo stato attraverso pagamenti di welfare, sussidi di disoccupazione o pensioni.

Solo il 55 per cento delle famiglie tedesche vive completamente del proprio reddito. La spesa per la sicurezza sociale ha raggiunto il record di 695 miliardi di euro annui. L’esperienza tedesca non è isolata in Europa occidentale, vista la tendenza dei governi a costruire sistemi di welfare sempre più complessi, sui quali un numero crescente di cittadini fanno affidamento. Il punto è che ben poco di questa spesa viene utilizzato per combattere povertà e disagio economico. Tutto si è trasformato in una futile, gigantesca partita di giro: si tassa la popolazione, e si restituisce ai contribuenti, a gentile richiesta, parte delle risorse così raccolte. Sarebbe ovviamente più sano demolire l’attuale sistema, sostituendolo con una forma semplificata di tassazione e fornire il welfare ai soggetti che ne hanno autenticamente bisogno.

Sono pochi, ad oggi, i paesi che hanno misurato la propria dipendenza dal welfare, ma il fenomeno è molto diffuso in tutta l’Europa occidentale. In Svezia, ad esempio, il think-tank liberista Timbro calcola che circa il 60 per cento della popolazione dipenda da pubblici benefici per una qualche frazione del proprio reddito; nel Regno Unito, l’11 per cento della popolazione gode di sussidi di disoccupazione o altre forme di welfare, secondo la Taxpayer’s Alliance. Circa il 18 per cento di essi sono pensionati. Nel frattempo, un complicato sistema di crediti d’imposta ha reso molte famiglie lavoratrici dipendenti dai pubblici sussidi. In totale, 6.1 milioni di famiglie britanniche ricevono crediti d’imposta, e secondo il Revenue and Customs Department, che amministra il sistema, nove famiglie su dieci, tra quelle con figli hanno titolo a ricevere i sussidi.

Cosa c’è di sbagliato in questi elevati livelli di dipendenza dallo stato? In fondo, i governi stanno solo cercando di aiutare chi non avrebbe abbastanza denaro per sopravvivere, giusto? Sbagliato. Il punto è che i governi tendono a tassare i cittadini, soprattutto quelli a basso reddito, con aliquote elevate, privandoli di risorse vitali che debbono poi essere restituite sotto forma di welfare. Ciò vuol dire che i cittadini diventano sempre più dipendenti dallo stato, e perdono il controllo della propria vita. Ciò rappresenta un potente disincentivo al lavoro ed all’iniziativa individuale. I sistemi estensivi di welfare sono concepiti per alleviare la povertà e ridurre le diseguaglianze. Obiettivi meritevoli: se prendete soldi dai ricchi (quelli veri) e li date ai poveri (quelli veri), questi risultati dovrebbero essere raggiunti. In realtà, nella maggior parte dei paesi europei, accade che lo stato prenda i soldi da soggetti né ricchi né poveri, e che in seguito li restituisca ai medesimi. Un esercizio che sembra parte di una strategia (in parte anche involontaria) per massimizzare il numero di persone che dipendono dallo stato. Il supporto alla filosofia del Big Government.

Ci sono due grandi problemi nella partita di giro del welfare europeo. In primo luogo, esso crea una burocrazia soverchiante ed onnivora. Un esercito di addetti alla riscossione delle imposte che deve essere integrato da un’altra armata di addetti al welfare, per restituire i soldi ai contribuenti da cui sono stati prelevati. Ciò implica enormi costi di esercizio ed altrettanto grandi opportunità di frode. In secondo luogo, il sistema rende le persone dipendenti dall’aiuto pubblico. Inevitabilmente, esse si sentono come mendicanti in attesa dell’elemosina. Nel contempo, gli incentivi a lavorare, investire e risparmiare si riducono. Dopo tutto, perché preoccuparsi di lavorare duro o risparmiare di più se ciò non farà molta differenza su quanto vi resta da spendere? Gli ultimi anni hanno dimostrato che l’iniziativa di adottare tagli alle tasse rischia di tradursi solo in un corrispondente aumento del deficit, a causa delle resistenze a tagliare capitoli di spesa pubblica che rappresentano veri e propri bastioni di interessi costituiti, quelli che nei paesi anglosassoni si chiamano entitlements e da noi, più in linea con una consolidata tradizione rivendicativa, “diritti acquisiti”. Ed è noto che i gruppi di pressione riescono a presidiare ed infiltrare in modo capillare il processo legislativo di loro interesse.

C’è un modo migliore per gestire la situazione: le tasse potrebbero essere concentrate su soggetti autenticamente ad alto reddito, ed il welfare potrebbe essere indirizzato a soggetti autenticamente bisognosi. Nel frattempo, all’enorme numero di percettori di redditi medi dovrebbe essere consentito di divenire autosufficienti. Operativamente, questo equivarrebbe ad ampliare l’esenzione dalle imposte per i redditi più bassi (il concetto di no-tax area, sviluppato e potenziato in Italia nel corso della precedente legislatura), ed a ridurre le aliquote sui redditi più elevati, per incentivare lavoro, investimento ed intrapresa. Ovviamente, la perdita di gettito inizialmente risultante dalla manovra dovrebbe essere compensata da tagli di spesa per i quali occorre, come detto, un forte consenso elettorale. La funzione redistributiva sarebbe quindi realizzata attraverso interventi di sussidio diretto alle sole fasce realmente bisognose della popolazione, senza complesse ed inefficienti stratificazioni di leggine lobbystiche e/o interventi selettivi sui crediti d’imposta.

Tutto ciò equivarrebbe al ridimensionamento del Big Government, qualcosa che molti di noi considerano un passo nella giusta direzione.

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