Argentina, un mese per evitare gli avvoltoi

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Nei giorni scorsi l’Istituto nazionale di statistica dell’Argentina ha comunicato che il Pil del paese è diminuito, nel primo trimestre, dello 0,8% su base trimestrale. Questo dato, sommandosi al calo dello 0,5% del quarto trimestre dello scorso anno, sancisce l’entrata del paese sudamericano in recessione, secondo una regola piuttosto rozza ma convenzionalmente accettata. E noto che le fonti ufficiali argentine non sono particolarmente affidabili, per usare un eufemismo, ma aver ammesso la contrazione (che probabilmente è di magnitudine ben superiore) è il dato rilevante.

Quella argentina è una vera e propria horror story economica e di cocciuta negazione della realtà da parte dei suoi eletti ma anche degli elettori, di quelle che andrebbero insegnate nelle scuole quale paradigma di autoinganno destinato a finire in lacrime. E’ la retorica del primato della politica sull’economia, che in astratto sarebbe pure un principio a cui tendere, ma che in molti casi viene declinato in una dimensione onirica sin quando non accade il trauma epocale. L’Argentina, sotto la guida di Cristina Fernandez de Kirchner, succeduta al suo defunto marito Nestor Kirchner, ha portato all’estremo il disprezzo della realtà, in un circolo vizioso che è ormai prossimo al capolinea.

La volontà politica di dare sussidi a chiunque e più in generale l’uso compulsivo della spesa pubblica hanno causato forti deficit fiscali, ma anche la progressiva perdita di competitività di un paese da sempre beneficiato dalla ricchezza di risorse del proprio territorio. Per questa via sono comparsi deficit commerciali che sembrava impossibile conseguire, e con essi il deflusso di valuta pregiata, i dollari. A questo punto, anziché tentare il riequilibrio e uscire dal mondo dei sogni in cui è possibile regalare tutto a tutti, la Kirchner si è imbarcata in una serie di azioni che hanno posto le basi per la catastrofe successiva.

Intanto, la manipolazione dei dati economici. Una grande tradizione delle classi politiche, quella di rompere il termometro. E quindi ecco l’istituto nazionale di statistica impegnato a manipolare i dati di inflazione effettiva. In questo caso anche per un motivo molto tangibile: i titoli di Stato legati all’inflazione emessi dal governo argentino, al crescere del costo della vita, costringono le casse pubbliche a spendere di più. Un po’ come farebbe un giocatore d’azzardo votato alla rovina, che raddoppia la posta a ogni giro per rifarsi delle perdite, il governo argentino, in luogo di fare un discorso adulto ai propri connazionali, ha dapprima preso il controllo della Banca centrale, privandola dell’indipendenza per appropriarsi delle sue riserve valutarie e, soprattutto, della sua capacità di stampare moneta, aumentando in tal modo gli squilibri.

Poi è giunta l’era del controllo feroce dell’esportazione di valuta, con effetti tragicomici, come i super dazi imposti sugli acquisti dall’estero a mezzo di e-commerce, con l’obbligo aggiuntivo per i sudditi di recarsi personalmente a sdoganare l’acquisto. E ancora, i crescenti vincoli all’uso delle carte di credito per i turisti argentini che si spostano anche solo in Uruguay con ferryboat per cercare gli agognati dollari; le restrizioni al rimpatrio dei profitti di aziende estere operanti sul suolo argentino, sino alla nazionalizzazione della società petrolifera Ypf, controllata dagli spagnoli di Repsol. Ma le riserve in dollari continuavano a calare: motivo per cui, a fine 2013, il governo ha accettato un “gradone” di svalutazione del cambio del peso e ha iniziato un timido cambio di direzione. Rialzo dei tassi d’interesse (e conseguente recessione), riapertura del negoziato col Club di Parigi dei paesi creditori, accordo con Repsol per indennizzarla dell’esproprio di Ypf.

Il paese ha una disperata fame di capitali esteri per evitare la morte per un’asfissia largamente autoinflitta. E per ottenerli dovrà compiere dolorosissimi sacrifici. Nei giorni scorsi una sentenza della Corte suprema statunitense ha ordinato al governo argentino di pagare capitale ed interessi anche ai cosiddetti holdout, cioè agli investitori che hanno rifiutato di subire la decurtazione dei propri investimenti dopo il default, definiti sprezzantemente “avvoltoi” dalla Kirchner. All’Argentina, che afferma che il rispetto di questa sentenza causerebbe l’innesco di una giostra infernale che le dimezzerebbe le riserve valutarie, è materialmente impedito di pagare gli obbligazionisti che avevano accettato il concambio post-default del 2001. Avendo mancato il pagamento del 30 giugno, è iniziato il cosiddetto “periodo di grazia”: c’è tempo fino al 30 luglio per trovare un accordo con gli holdout ed evitare un nuovo disastroso default.

In prospettiva, non si può neppure escludere che Buenos Aires richieda aiuti internazionali, magari allo stesso odiato Fmi. Beffarda nemesi, quella capitata al paese che volle ignorare la realtà e che ora rischia di vedere vanificati i propri sforzi di tornare a giocare con le regole della medesima, perseguitata dal proprio passato. Ma è tutt’altro che scontato che la lezione possa servire anche a tutti i masanielli d’accatto che sovraffollano l’offerta politica italiana e che per anni, e sino a tempi molto recenti, hanno elevato uno Stato fallito come l’Argentina a improbabile modello di sovranità e giustizia sociale.

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