La Cassa cristallizza lavoro e imprese, urge ventata liberista

di Mario Seminerio – Il Foglio

Nei primi otto mesi del 2010 l’Inps ha autorizzato alle aziende italiane l’utilizzo di 826,4 milioni di ore di cassa integrazione, con un aumento del 60,5% rispetto allo stesso periodo del 2009. Quasi il 25% del totale delle ore richieste dalle imprese è rappresentato dalla cassa integrazione in deroga, strumento che nei primi otto mesi dell’anno scorso pesava invece per meno del 10% sul dato complessivo.

Nel mese di agosto quasi la metà delle ore di cassa integrazione chieste sono state di cassa in deroga (35,5 milioni) mentre quelle di cassa integrazione ordinaria e straordinaria, con 41 milioni di ore complessive, sono risultate in lieve diminuzione rispetto al 2009 (42,4 milioni le ore autorizzate nell’agosto 2009). La cassa in deroga nel mese invece è quasi triplicata passando da 12,1 milioni a 35,5 milioni.

L’introduzione della cassa integrazione in deroga, decisa nel momento più acuto della crisi e mantenuta in essere anche nel corso di questa fantasmatica “ripresa”, suscita dubbi ed interrogativi. In primo luogo, questo istituto straordinario di integrazione reddituale ha finito con l’essere progressivamente sganciato dalla sua missione, così come ridefinita dopo le grandi ristrutturazioni industriali degli anni Ottanta e Novanta, per riavvicinarsi ad una forma di “congelamento” delle situazioni di crisi aziendale, come accadeva negli anni Settanta.

Se ancora oggi, a distanza di tre anni dallo scoppio della bolla immobiliare che ha prodotto la più grave crisi globale dal 1929 (perché non di semplice recessione si è trattato), vi sono ancora così tante imprese che non riescono a riassorbire tutti i propri lavoratori perché si trovano di fronte una domanda ancora debole, occorre chiedersi: il nuovo livello di domanda per l’impresa è strutturale? In altri termini, esistono imprese che operano con organici definitivamente sovradimensionati, che dovrebbero quindi essere sottoposti ad una dolorosa cura dimagrante? Esistono imprese che possono essere considerate definitivamente fuori mercato? Poiché la fisiologia d’impresa fornisce, non da oggi, la risposta affermativa ad entrambi i quesiti, sarebbe opportuno pensare a forme di protezione dei lavoratori, più che dei posti di lavoro.

Le imprese ed i settori produttivi nascono, raggiungono la fase di maturità e muoiono. Pensare di cristallizzare la realtà mantenendo situazioni non recuperabili vuol dire mettere una pietra al collo dello sviluppo della nostra produttività. Per questo serve liberare risorse per poter erogare sussidi di disoccupazione universali, cioè fruibili da qualsiasi tipologia di lavoratore, stabile o precario, modulati sul principio di welfare-to-work, cioè della temporaneità della prestazione di sussidio, con orientamento al reimpiego il prima possibile.

Senza contare che la presenza di vaste sacche di lavoratori che beneficiano della cassa in deroga maschera le reali condizioni del mercato del lavoro, contribuendo a mantenere artificialmente basso il tasso di disoccupazione, che peraltro in Italia è ulteriormente ridotto da un elevato tasso di inattivi, cioè di persone che hanno smesso di cercare impiego.

Il nostro paese è in forte ritardo sulla modernizzazione del proprio mercato del lavoro, e rischia di pagare molto cara l’assenza di forme di flexicurity, in termini di ritardo di uscita dalla crisi e di ulteriore sclerotizzazione del nostro sistema produttivo. Serve una visione riformatrice integrata, che passi quindi anche per le modalità di uscita dall’impresa, con la riforma dell’articolo 18, per superare l’odioso dualismo del nostro mercato del lavoro.

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