Zakaria vs. Oren

di Andrea Gilli

Israele ha recentemente nominato Michael B. Oren suo nuovo ambasciatore negli Stati Uniti. In qualità di nuovo rappresentante dello Stato ebraico a Washington, il famoso storico è stato intervistato domenica scorsa da Fareed Zakaria. Si spazia dal nucleare iraniano allo Stato palestinese, dalla relazione tra Washington e Gerusalemme alla politica interna americana. Suggeriamo caldamente di guardare il video.

Zakaria non è infatti un semplice giornalista. E’ una delle menti più raffinate d’America quando si parla di politica estera, e deve la sua competenza al B.A. a Yale, in Storia, e al Ph.D ad Harvard, in Scienze Politiche. Oren, dall’altra parte, non è un semplice ambasciatore. E’ un esimio storico, formatosi prima alla Columbia University (con un M.A. in affari internazianali) e poi a Princeton (Ph.D in studi mediorientali). Tra le due attività, vi è stata la sua partecipazione alla guerra in Libano del 1982.

Lo scontro è vivace e merita attenzione per la sua brillantezza. Zakaria è intento a sottolineare le contraddizioni logiche delle posizioni di Oren (e di Israele). Contraddizioni, a nostro modo di vedere, abbastanza evidenti. Dall’altra parte, queste contraddizioni sono anche “logiche”, nel senso che sono frutto della duplice necessità, da una parte, di difendere e mantenere la posizione di forza di Israele e, dall’altra, di dare loro una patina di legalità, legittimità e moralità. Oren, in questa sua nuova veste, è particolarmente abile nel difendersi e nel difendere la posizione di Israele. Buona visione.

P.S.: noi stiamo con Zakaria. Le sue argomentazioni, infatti, ci sembrano nettamente più coerenti. Non si può negare che parte del nostro favore verso Zakaria proviene dal pregiudizio che abbiamo verso Oren e verso il suo lavoro da storico. Se i suoi lavori sono brillanti e interessanti, non si può però celare il fatto che spesso non siano privi di ambiguità. Per esempio, nel suo libro Six Days of War: June 1967 and the Remaking of the Modern Middle East, Oren afferma che, a guerra conclusa, Israele offrì agli arabi costretti a lasciare le proprie abitazioni il diritto di ritorno. Ma, aggiunge, nessuno presentò domanda. Come dimostra in maniera ben più approfondita Benny Morris, nel suo Righteous Victims: A History of the Zionist-Arab Conflict 1881-2001, non fu proprio così. Israele offrì sì questa possibilità, ma cercò anche di impedire in qualsiasi modo di poter presentare queste domande. Nonostante i suoi sforzi, qualche migliaio di moduli arrivarono comunque al mittente. Nessuna fu accettata.

Questo particolare è, secondo noi, importante, perché mostra una certa reticenza da parte di Oren nel rivelare quella parte della storia di Israele più scomoda, più ambigua. La stessa reticenza la abbiamo scorta nel rispondere alle contraddizioni sottolineate da Zakaria.

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