Cosa succede in Medio Oriente/2

di Andrea Gilli

Due settimane fa, su Epistemes, scrivevamo:

Nel corso delle ultime settimane, il Medio Oriente ha osservato una serie di movimenti sospetti, ambigui e non intelligibili. Questi dati, presi singolarmente, non hanno molto valore. Messi insieme, però, suggeriscono l’avvicinamento di una nuova probabile crisi.

I tumulti che hanno sconvolto il Libano alla fine della scorsa settimana sembrano darci ragione. In questo breve articolo cerchiamo di guardare a quanto sta succedendo a Beirut in un’ottica d’insieme per comprendere meglio sia le sue cause che le sue conseguenze.

Fare scenari relativamente al Libano non è facile. Il Paese è di fatto in una situazione di crisi permanente dal 1975 e il suo status non è mai stato risolto, neppure quando alla fine degli anni Ottanta si trovò una soluzione alla guerra civile. Durante gli ultimi giorni ci sono state delle importanti, e nuove, evoluzioni nel Paese. Dire dove esse porteranno è quasi impossibile. Si può però provare a ragionare sulle cause di questa situazione e quindi speculare su quanto potrebbe accadere in futuro.

I tumulti degli ultimi giorni rappresentano una drammatica rottura nella storia del Libano in quanto finora Hizbullah non aveva mai usato le armi contro i libanesi. Di sicuro la delicata situazione istituzionale del Paese può spiegare in parte questa novità (le elezioni presidenziali sono oramai rimandate sine die). A nostro modo di vedere, però, anche fattori di più grande portata hanno avuto un ruolo determinante.

Nell’articolo scritto due settimane fa, notavamo come Israele e Siria fossero straordinariamente vicini ad una pace. Quella pace è poi stata affossata dalle rivelazioni (ad arte?) degli Stati Uniti sul blitz contro il sito nucleare siriano avvenuto lo scorso settembre.

Questo dato è fondamentale, in quanto una pace tra Siria e Israele avrebbe stravolto la geopolitica regionale. La politica americana di democratizzazione del Medio Oriente, infatti, ha finora indebolito e penalizzato Israele che nel giro di pochi anni si è trovato con Hamas al potere a Gaza e con il Libano nuovamente destabilizzato.

Allo stesso modo, l’imponente ruolo americano nella regione ha creato forti scosse al regime siriano che se prima rischiava di essere travolto dai GIs statunitensi, nel corso dei mesi, e poi degli anni, ha visto indebolirsi sempre di più il suo controllo interno retto su un delicato equilibrio militare (controllo dei servizi e dell’esercito), etnico (alawiti) e geopolitico (sostegno dell’Iran). Se sponsorizzando l’omicidio di Hariri, Damasco ha cercato di invertire il rafforzamento delle opposizioni filo-saudite e/o occidentali in Libano, e quindi mantenere la sua influenza sul Paese, con il passare del tempo la sua posizione è diventata sempre più scomoda e quasi insostenibile. Da una parte, la sua politica verso il Libano diveniva sempre più difficile, per via delle pressioni americane e israeliane. Dall’altra parte, essendo il suo regime fortemente dipendente da Teheran, esso non poteva permettersi una politica troppo accomodante verso l’Occidente.

La situazione si è progressivamente evoluta, e con essa il relativo posizionamento degli attori (sui quali pesava, di volta in volta, il successo della surge, le elezioni parlamentari, le pressioni degli sciiti e via di seguito). In un modo o nell’altro, un mese fa Israele e Siria erano quasi giunti ad una pace.

Un’eventuale tregua tra i due Paesi avrebbe avuto enormi implicazioni regionali perché, da una parte, avrebbe permesso ai due Stati di concentrarsi meno sulla loro mutua inimicizia e più sui loro problemi interni o con altri Paesi. Dall’altra parte, però, avrebbe, potenzialmente, indebolito gli USA e l’Iran. La rilevazione del blitz di settembre da parte degli Stati Uniti sembra infatti essere stata orchestrata per far fallire i contatti tra le due diplomazie.

Gli Stati Uniti si sarebbero trovati in una situazione spiacevole. Mentre la retorica del “non si tratta con chi sponsorizza il terrorismo” veniva mantenuta, il loro principale alleato nella regione glissava su questo corso per fare addirittura la pace con un Paese con il quale è formalmente in guerra dal 1948. Non esattamente una grande figura per Washington, anche in termini di credibilità. Non è però del tutto chiaro perché Washington, anziché far fallire i negoziati, non vi abbia messo sopra il proprio cappello all’ultimo minuto. La perdita di prestigio dovuta alla contraddizione della sua dottrina sarebbe stata facilmente recuperata a livello strategico. Il problema Hizbullah sarebbe infatti stato ridotto, e l’influenza sul Medio Oriente di Teheran contrastata, senza parlare del fatto che un avversario diventava un potenziale partner. Se si considera la delicata situazione mediorientale, questi elementi non sembrano proprio secondari. Al momento, però, a queste domande non è possibile dare risposta. Dall’azione americana, si può solo dedurre che per Washington la posizione relativa della Siria, nei mesi a venire, sarà più debole di quella attuale. Quindi trattando ora ci si sarebbe dovuti piegare a concessioni che nei mesi futuri non sarebbero più necessarie.

Con un accordo Israele-Siria, il Paese più danneggiato sarebbe stato l’Iran. Una Siria in pace con Israele significherebbe uno stop ai rifornimenti verso Hezbollah e di conseguenza la progressiva incapacità iraniana di colpire Israele. Elemento essenziale per l’influenza regionale di Teheran.

A questo punto, però, si potrebbero sollevare dei dubbi sull’opportunità da parte di Teheran di scatenare le violenze degli ultimi giorni, in quanto la pace era già stata fatta fallire da Washington.

La nostra impressione, speriamo sbagliata, è che ci sia qualcosa di più. Con la surge in Iraq, gli USA hanno dato un colpo devastante all’espansione dell’influenza iraniana in Iraq – che comunque rimane enorme. Nel corso delle ultime settimane, come notavamo due settimane fa, la retorica di Washington contro Teheran è letteralmente esplosa. Segno che l’Iran potrebbe incontrare numerosi problemi nei prossimi mesi nell’implementazione della sua politica verso Baghdad.

Per Teheran, dunque, il fronte libanese potrebbe aumentare di importanza, specie se la surge e la riconciliazione in atto in Iraq dovessero proseguire ne.

Proprio sul fronte libanese, però, vi sono state delle evoluzioni negative – almeno per l’Iran. Da una parte, come riportavamo già nel nostro articolo, la voglia di una rivincita su Hizbullah, da parte di maroniti e sunniti, è andata crescendo. Gli scontri dei giorni scorsi d’altronde sono scoppiati dopo la decisione del Governo Sinoira di interrompere un sistema di comunicazioni usato dal movimento sciita. Dall’altra parte, la salita al potere del Governo italiano può avere avuto un certo effetto. Durante la campagna elettorale, il Governo entrante ha più volte parlato della necessità di rivedere le regole di ingaggio per i nostri militari. Nuove regole di ingaggio vorrebbero dire disarmo di Hizbollah – obiettivo non solo non raggiunto ma praticamente mai contemplato dai nostri militari.

Che il prossimo Governo riesca, prima, ad ottenere regole d’ingaggio più stringenti e, poi, ad attuarle è tutto da vedere. Il dato rilevante è un altro. Per l’Iran, Hizbullah è una pedina fondamentale nello scacchiere mediorientale. E non vuole perderla. Con regole d’ingaggio più stringenti, la libertà d’azione del movimento di Nasrallah potrebbe essere fortemente limitata. Se si pensa che contemporaneamente si sentiva aria di resa dei conti all’interno del Libano, l’intera faccenda risulta più chiara. Teheran e Hizbullah hanno voluto agire preventivamente, per evitare di finire accerchiati.

Almeno dai dati a nostra disposizione, non ci sono ragioni per pensare però che la situazione si stabilizzi. Proprio nel nostro precedente articolo ricordavamo come il riarmo di Hizbullah sia terminato. Ci si riarma quando si vuole combattere. E Hizbullah vuole combattere sia i suoi nemici interni al Libano che quelli esterni.

La partita, dunque, scotta. L’Iran ha bisogno di fronti caldi per incrementare il proprio potere regionale. Gli USA stanno colpendo duro sul fronte iracheno. Il rischio che anche il fronte libanese venisse messo sotto scacco era troppo grave. L’Iran né vuole né può permettersi di perderli, uno o entrambi. Gli Stati Uniti, dall’altra parte, vogliono chiudere, o quanto meno dare una svolta, alla situazione in Iraq (si conti che in Aprile il numero di morti è tornato a crescere. altro dato che avevamo anticipato – questa volta a settembre). Ciò fa pensare che l’Iran spinga e spingerà Hizbullah all’azione.

C’è da sperare che la situazione non degeneri, specie per il nostro contingente di 3.000 truppe. Operativamente non in grado di combattere una guerra, esso si trova nella scomoda situazione di non potersene andare, sia per ragioni di stabilità regionale che di prestigio del Paese. Un dato però solleva più di un dubbio. Perché gli USA hanno voluto interrompere le trattative tra Israele e Siria? Come detto, un’interpretazione può essere la seguente: la Siria nei prossimi mesi sarà molto più debole. Questa previsione, fatta da noi, non conta nulla. Fatta a Washington, conta molto. E può voler dire tre cose: drammatici sviluppi in Iraq tali da marginalizzare l’Iran nel Medio Oriente; radicale indebolimento endogeno (crisi economica, politica) o esogeno (guerra) dell’Iran; o pace con l’Iran che ridurrebbe l’importanza della Siria nella regione. Tutto ciò è tanto più inverosimile se si pensa che fra pochi mesi scadrà il mandato presidenziale.

Come notavamo due settimane fa, restano tante domande sul tavolo. E di risposte ce ne sono poche. Per il nostro Paese, vale una sola considerazione. Se la situazione si inclinerà nuovamente, le responsabilità di chi ha mandato le nostre truppe in quella zona saranno gravissime. Di fronte a tanti dubbi e incognite, questa è l’unica certezza.

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