L’Iraq Study Group Report e la politica estera americana

di Andrea Gilli

Come avevamo ampiamente anticipato, le interpretazioni che in Italia sarebbero state date allo studio presentato mercoledì mattina al Congresso americano sono state tra il bizzarro e lo stravagante. Taluni affermano che il rapporto non dice nulla di nuovo salvo, a loro avviso, appoggiare quanto fatto finora dall’amministrazione americana. Altri sostengono che è invece la sconfitta definitiva della Presidenza Bush. Per altri ancora il rapporto non dice nulla di nuovo, se non indicare la via sbagliata.

Nessuno, però, si spinge oltre e tenta di spiegare come tutto ciò possa influenzare la politica estera americana. O meglio, al di là della propaganda, resta davvero poco. Se è difficile credere che l’impegno profuso dall’ISG non generi alcun cambiamento, dall’altra parte risulta altresì inverosimile pensare che la politica estera americana faccia una svolta a 360 gradi come taluni vorrebbero suggerire.

Appare dunque opportuno provare a ragionare su alcuni aspetti. In generale, il Rapporto presentato due giorni fa suggerisce quanto il buon senso sembra indicare: quando si è forti si può fare la voce grossa, quando si è deboli bisogna mediare, trovare compromessi. A differenza di altre discipline come l’economia o la scienza politica, dove i parametri di riferimento sono facilmente misurabili (il GDP è misurabile attraverso la moneta, in politica interna i voti possono essere contati), in politica internazionale non esistono che percezioni di quello che è il parametro di riferimento principale, il potere.

Come già Max Weber (uno dei primi realisti moderni) aveva notato, il potere si compone di due parti: la mera forza bruta, o coercizione, e l’autorità, la forza impersonale che permette ad un individuo o ente di operare una certa azione in virtù della sua legittimità. Le componenti sociologiche, psicologiche e ideazionali sono fondamentali. Come anche le percezioni: si pensi all’attacco dell’11 settembre. Da un punto di vista militare ha avuto un significato ridotto. Senza ombra di dubbio il costo economico di quell’attacco è stato molto superiore. Ma se si pensa al lato morale e psicologico si evince chiaramente come quell’atto sia stato devastante.

Tutta questa lunga parentesi serve per introdurre la logica alla base del rapporto Baker-Hamilton. Gli Stati Uniti, da un punto di vista militare non sono certo più deboli di quanto lo erano tre o cinque anni fa. Molti analisti avevano anticipato che due guerre di attrito come quelle irachena e afghana avrebbero, se non portate a termine in tempi brivi, logorato sia il morale che gli equipaggiamenti delle truppe. Ma se si parte dalla più vasta considerazione dell’arsenale americano (compreso quello nucleare), è evidente come gli Stati Uniti rimangano l’unica superpotenza al mondo.

Il problema sorge però qualora si ragioni in termini di percezione del potere. Come William Wohlforth ha suggerito nei suoi studi, il potere politico agisce sulla base della percezione del suo potere. Il potere militare americano è pressochè intatto, inteso come mera capacità di coercizione (anche se, nel caso in cui in Iraq e Afghanistan la situazione non dovesse cambiare, assisteremmo ad un doloroso logoramento in questo settore). Il potere politico, l’autorità su cui si basa quella forza di coercizione, è andato invece riducendosi significativamente. E ciò è dovuto sia alla crescente insoddisfazione interna (che piaccia o no, Bush ha perso le elezioni di metà mandato e lo smacco subito con l’uscita di scena di Bolton è la prova lampante di questa debolezza), che al crescente marasma internazionale.

Gli USA stanno logorando i loro mezzi di coercizione, mentre la loro legittimità è in caduta libera. Questi sono i fatti da cui partire.

Il Rapporto del gruppo di studio sull’Iraq non ha fatto altro che predere atto della situazione e rispondere a questi due problemi: il logoramento del power-capability e del power-authority. Non è un caso che le due principali soluzioni avanzate riguardino il ruolo delle truppe in Iraq (da attori attivi ad addestratori, in modo da toglierle dalla prima linea e quindi ridurre l’attrito che si sviluppa su di esse) e la legittimità degli Stati Uniti (da attore contro la stabilità internazionale a suo coordinatore: in questo caso ci riferiamo ai suggerimenti di accordo regionale con Iran e Siria).

Il Presidente Bush farà evidentemente le scelte che riterrà più opportunte: l’ISG doveva dare dei consigli, non degli ordini. Potrebbe anche accadere che gli USA finiscano per attaccare l’Iran o comunque per non cercare un accordo con Tehran. Le teorie non fanno previsioni in tal senso. Esse ci aiutano però in un’altra direzione. Ci dicono che, al momento, questa scelta sarebbe quella più penalizzante per gli Stati Uniti nel medio/lungo periodo. Incapaci di vincere due guerre, sempre meno percepiti come legittimati ad intervenire militarmente, se gli Stati Uniti dovessero lanciare una nuova guerra non potrebbero che ridimensionare ulteriormente il loro ruolo internazionale (anche nel caso, assai improbabile, di guerra lampo vittoriosa (?) contro Tehran). Mentre se dovessero rifiutare il dialogo con gli Ayatollah, Washington sara’ costretta a continuare a barcamenarsi senza successo in Iraq, ipoteticamente per decenni (come in economia, anche in politica le soluzioni demand-side – contro il terrorismo – non risolvono nulla).

Bush potrà ovviamente continuare a tenere il suo corso, e magari la stessa politica potrebbe essere continuata dal suo successore, sia esso democratico o repubblicano. Come abbiamo spiegato più volte, il sogno di distruggere definitivamente l’insicurezza internazionale è sempre stato felpatamente accarezzato nelle menti dei governanti, in ogni epoca storica. Purtroppo, aspirazioni del genere sono sempre andate infrante. Per un semplice motivo: il sistema internazioale è caratterizzato da insicurezza internazionale.

Se dunque gli Stati Uniti continueranno una politica volta non a coordinare il sistema internazionale, ma ad intaccarlo, essi andranno incontro ad una prodigiosa caduta. E il problema del mondo, in quel frangente, sarà evidentemente un altro: sapere se il nuovo millennio piomberà in un’anarchia senza destino o se invece sarà dominato da nuove potenze egemoni come Cina e Russia.

Atene, la potenza egemone della Hellas, finì per perdere la Guerra del Peloponneso. Allo stesso modo, quando si guarda la politica internazionale, bisogna aver ben presente che la stessa fine può toccare agli Stati Uniti, per quanto assurdo al momento ciò possa sembrare. Tutto dipende da come “Atene” agirà. 2400 anni fa decise per l’intransigenza, sostenendo la necessità di terminare “per sempre” l’insicurezza internazionale. Se si fosse accontetata di ridurre questa insicurezza, la storia sarebbe andate diversamente.

Tucidide scrisse la sua opera perchè chi gli sarebbe succeduto potesse trarre giovamento dalle lezioni del passato. Vedremo se quella lezione verrà colta, o meno.

Nei centri di ricerca e nei dipartimenti di Studi Strategici in giro per il mondo gira un ritornello: quando si tratta di affari militari o relazioni internazionali, gli uomini compiono storicamente sempre gli stessi errori. Tra di essi, il peggiore e’ quello che li spinge a cercare soluzioni nuove a problemi vecchi. E cosi’, anziche’ imparare dal passato, essi continuano a riprodurlo.

I commenti sono chiusi.

Scopri di più da Epistemes

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading